Il miele del silenzio
«Vedendo che urgeva per il popolo il tempo della raccolta della messe, Antonio pensò d’interrompere la predicazione fino al momento favorevole per il sermone. Congedate le folle andò alla ricerca di luoghi propizi al silenzio e si recò, per amore della tranquilla solitudine, nel luogo denominato Camposampiero. Conducendo una vita celeste, come un’ape operosa, si dedicava all’occupazione della sacra contemplazione» (Vita assidua 15).
Fermarsi e stare qualche volta da soli, in silenzio. È importante. Si potrebbero snocciolare, una dopo l’altra, le ragioni che ci consentono di affermare come mai riservarci delle soste ci faccia bene, rimanere talvolta nella solitudine ci faccia ritrovare noi stessi, stare in silenzio ci possa aiutare a ritrovare un po’ di serenità. Si rischia però di essere retorici, di esaltare idealisticamente dimensioni che in realtà sono assai faticose e che possono perfino sembrare contraddittorie. Vale forse la pena, guardando proprio a sant’Antonio, mettere in luce alcune contraddizioni. Chissà se vere o apparenti!
Mentre tutti lavorano, il Santo si ritira e si concede un tempo di riposo. Dove sta la sua generosità? Tutti si chinano su mansioni faticose, in basso, a contatto con l’asprezza della terra; Antonio invece conduce, in alto, una vita riparata e celeste. Tra l’altro, si può davvero dire che proprio lui, protetto dall’ombra di una pianta verdeggiante, sia come «un’ape operosa»? Aveva certo predicato molto e ascoltato molte persone; ora ha diritto a un po’ di quiete.
Forse le circostanze ci permettono di dire qualcosa di meno scontato. Deciderci in favore di tempi di silenzio e solitudine è sempre una scelta controcorrente. Molto più naturale darci da fare, lasciarci portare dal flusso vorticoso delle nostre incombenze. Frenare, abitare spazi che non producono nulla, come quando si sta soli e in silenzio, per quanto possa sembrare attraente, in realtà ci domanda una frattura, uno strappo. Un arrenderci. Ci chiede di rinunciare a essere dominatori protagonisti del nostro tempo. Difficilissimo! Istintivamente sentiamo che per esistere occorre dire, parlare, spiegare. Stare zitti vuol dire rinunciare a vivere; così ci pare. Tutt’altro che spontaneo è stare in silenzio! Occorre grande fermezza di spirito.
Insomma, ciò che fa Antonio ha qualcosa di paradossale: oltrepassando il confine dell’evidenza, scopriamo che quanto sembra pausa serena e ricostituente è invece compito arduo. L’albero del noce su cui sale non è un centro di benessere in miniatura, ma un altro e diverso campo di lavoro. Ci viene detto che l’operosità a cui l’«ape» Antonio si dedica è l’«occupazione della contemplazione». Può voler dire tantissime cose. Facilmente si tratta dell’appassionata lettura della Bibbia, da cui attingere linfa vitale per una successiva vibrante predicazione.
Oppure rivisitare con la memoria del cuore il racconto di tante storie di vita udite; ricordare gli sguardi di tante persone incontrate che domandavano aiuto e perdono. E in tutto questo scorgere che il Signore è all’opera, nelle ordinarie esistenze di uomini e donne dedicate alla vita degli altri. Se Antonio è l’ape, costoro sono forse i fiori. Chissà, una volta sceso dal noce il Santo avrà potuto parlare più efficacemente ai suoi ascoltatori, facendo loro gustare la consolazione d’essere già custoditi nelle mani di Dio e che il Vangelo germina già nelle loro vite. Come dolce miele silenzioso.
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