Aperti alla bellezza

Contemplare come Francesco significa accogliere con il cuore quel che alla nostra vista si offre, con semplicità, grati, consapevoli che ogni creatura ha in sé un disegno divino, della cui ricchezza non si può che restare estasiati.

«Laudato si', mi' Signore, per sora luna e le stelle: in celu l'ài formate clarite et pretiose et belle».

Di suor Marzia Ceschia

Al fulgore di «messor lo frate Sole», chiamato a cantare l’Altissimo con la sua luce irradiante e splendida, la lode corale delle creature evocate da Francesco fa seguire la luce gentile di «sora Luna e le stelle», «clarite e preziose e belle», tenui eppure tali da squarciare le tenebre, perciò preziose come segnali orientatori e capaci di incantare lo sguardo per la loro bellezza. Che la luna e le stelle siano attraenti per lo spettacolo delicato e insieme potente che esse offrono lo suggeriscono i poeti, gli artisti e i santi, come Francesco.

E la «pianticella» Chiara, sulla scia del suo «fondatore e piantatore» (Testamento: FF 2842), ci lascia intuire, scrivendo alla consorella boema Agnese, come queste creature siano esperte di bellezza, capaci di stare, loro per prime, in ammirazione di Colui che del bello è la sorgente: «Ama con tutta te stessa colui che tutto si è donato per amore tuo, la cui bellezza ammirano il sole e la luna» (Terza lettera ad Agnese: FF 2889-2890). Alla bellezza è totalmente aperto il santo di Assisi: in essa riconosce uno degli attributi di Dio nelle Lodi di Dio Altissimo (cf. FF 261: «Tu sei bellezza»). Il Creato ne è risonanza, musica che ci precede e attira, corrisponde al più intimo bisogno di gioia che l’uomo ha nel cuore. La creazione stessa è una via pulchritudinis, via di bellezza da contemplare e nella quale cogliere i segni di una divina sollecitudine. 

La narrazione di Tommaso da Celano permette di intuire, nel vissuto dell’Assisiate, una stretta e profonda relazione tra dimensione contemplativa e affettiva: «Chi potrebbe descrivere il suo ineffabile amore per le creature di Dio e con quanta dolcezza contemplava in esse la sapienza, la potenza e la bontà del Creatore? Proprio per questo motivo, quando mirava il sole, la luna e le stelle del firmamento, il suo animo si inondava di indicibile gaudio. O pietà semplice e semplicità pia!» (Vita prima, FF 458). 

Contemplare significa accogliere con il cuore quel che alla nostra vista si offre, con semplicità, senza frapporre precomprensioni e aspettative che «deformano», con uno sguardo grato, riconoscente, consapevoli del fatto che ogni creatura porta in sé un disegno che l’essere umano non possiede nelle sue origini e della cui ricchezza non può che restare estasiato. Nel nostro tempo spesso il guardare è un passare da un’immagine all’altra, consumando talora apparenze, senza fermarsi a osservare le sfumature, i particolari, la trama di relazioni che tutto ciò che vediamo sottende. L’atteggiamento contemplativo di Francesco ci richiama a recuperare la lentezza e la pazienza dell’attenzione, dell’accorgersi, dello stupirsi, ci sprona a reimparare che cos’è la bellezza, liberandoci da stereotipi superficiali, tornando a capire che è bello quel che muove ad affetto il cuore, che libera le energie migliori di sé, che lascia essere, che fa trasparire una cura, una dedizione. 

La luce gentile della luna e delle stelle evoca la virtù della mitezza e, insieme, allude a una fraternità creaturale che è reciproco servizio: non c’è gerarchia di potere tra il sole e le luci notturne, non c’è concorrenza, ma il darsi spazio e l’essere coerenti con la propria specifica chiamata a illuminare, a custodire in ogni tempo la vita, rispettando il ritmo necessario dell’alternanza. Quanto più ciascuna creatura dona la propria vitalità, tanto più la vita delle altre è tutelata e corroborata. È la medesima logica che Gesù insegna a quelli che scelgono di seguirlo: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» e «Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà» (Mt 10,39). In questo le creature danno lezione, fedeli al loro mandato.

«Formate» dall’Altissimo, la luna e le stelle a loro modo ne manifestano lo stile, la sollecitudine a sostenere la vita senza rivendicarla, discrete come chi veglia amando. Compagne dell’uomo, sentinelle nell’oscurità, gli fanno memoria che il tempo, tra chiarezza e oscurità, prepara la terra e matura germogli e che un Altro al tempo presiede, «governandolo» con bontà e bellezza: «E Dio fece le due fonti di luce grandi: la fonte di luce maggiore per governare il giorno e la fonte di luce minore per governare la notte, e le stelle. Dio le pose nel firmamento del cielo per illuminare la terra e per governare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. Dio vide che era cosa buona» (Gen 1,16-18). E noi, alzando gli occhi al cielo, che cosa vediamo? Ma, soprattutto, come vediamo? Sappiamo ancora sostare nella meraviglia e nella gratitudine, ispiratrici di poesia, di canto e di fiducia?

La forma dell’amore

Di Davide Rondoni

Francesco conosceva la notte. La guardava, tra i rami e nelle aperture di cielo che accompagnavano il cammino, le soste, le preghiere. La notte era notte, priva delle illuminazioni artificiali che ora quasi sempre ce la rubano. Dopo aver lodato l’Altissimo per il Sole, il poeta santo ci mostra il contrario, o meglio, l’altro elemento del ritmo della vita umana, la Luna e la notte. La luna è la prima «sorella» che appare nel Cantico. Lei che era stata diva, fanciulla divina e lo sarà anche in seguito per tutta la poesia e la musica, fino a che nel Novecento diventerà – nelle provocazioni dei futuristi – un feticcio da irridere... Basta col chiaro di luna, diranno i poeti nauseati dal continuo ricorrere romantico e melenso in cui era venuta sfibrandosi la ancora potente invocazione alla «giovinetta immortal» di Leopardi che iniziava il suo salmo moderno, il Canto notturno del pastore errante nell’Asia, con i versi splendidi e struggenti: «Che fai tu, luna, in ciel, dimmi che fai / silenziosa luna...»

Quella luna lontana, cantata da Saffo e dai poeti antichi, e poi dai moderni e ancora, nonostante le censure futuriste, dai contemporanei, è in Francesco semplicemente e solamente «sora», sorella. Spoglia di aggettivi, che invece per le stelle si accendono, sta, nuda, semplice, come presenza che accompagnava le notti del santo in preghiera e del santo viandante. Sta come una sorella, e al contrario del primo frate Sole, potente e generoso di vita, emblema del medesimo Altissimu, lei no, offre una luce discreta, a volte scompare, come una sorella nelle stanze della casa. C’è, ma non ha bisogno di far sentire la sua presenza con magnificenza. È la luna sorella che ci accompagna, accoglie a volte un nostro sguardo malinconico o stanco, ed è così bella, e quieta e lucente che ci conforta, oltre che – specie in luoghi e tempi bui – dare un segno di chiarore sul cammino, una pallida scia da seguire. Una sorella, appunto, che non ti lascia mai. 

Francesco la omaggia, poeta tra i poeti, con il termine esatto e nulla più. Per le stelle, invece, si sbizzarrisce quasi! Si rivolge di nuovo all’Altissimu dicendo che le ha «formate», cioè le ha composte bene (in «forma» c’è la radice di formosa, in spagnolo divenuto hermosa cioè bella). E clarite, cioè chiare, lucenti, e preziose come gioielli e quindi belle. La claritas era una caratteristica estetica della retorica, del discorso, della voce, intendendo con essa la limpidezza, parte della efficacia, nonché caratteristica della luce. Le stelle in quanto segno sono «cose» e «discorso», oggetto ma anche parola. È una claritas non solo oggettuale, una lucentezza, ma anche una eloquenza esatta, limpida. Infatti come sono clarite, sono preziose. Non solo preziose per i naviganti e per chi, ai tempi di Francesco, si orientava con esse e a esse chiedeva lume nella notte, ma preziose perché sono segni preziosi.

E infatti arriva infine l’aggettivo semplice e diretto: belle. Non solo il poeta Francesco ci offre così, nella tessitura ritmica di questa prosa poetica o quasi salmo del Cantico, una rima primaria e sonora, ma ci offre anche, dopo i due aggettivi alti e ricercati, un tono quasi bambinesco. Le stelle sono belle, dice il bambino alzando gli occhi al cielo. Semplicemente. Con lo sguardo del minore tra gli uomini, lo spirito infante, Francesco tiene insieme la verticalità del mistico che dà voce alla vertigine mistica che mormora dal profondo all’Altissimu e la stupefazione dell’animo bambino dinanzi alla bellezza disarmante e primaria delle stelle. Ma è importante notare che i tre aggettivi, perfetti e ricercati i primi due e semplice il terzo, tenuti dalla ritmica della congiunzione, sono legati a quel gesto: in celu l’ài formate. Ovvero sono aggettivi frutto dell’atto «formante» dell’Altissimu bon Signore. Come un gioielliere. E chissà quanto il poverello di Assisi, sofferente così a lungo di dolori agli occhi, amava quella luna sorella con la sua luce che non ferisce e le stelle, che della luce sono il sorriso.

L’unica verità

Il Signore viene da Oriente come un Bambino di sole,
il Suo vagito umano è nella notte tra le greggi 
e le lanterne,
l’acqua ed il fuoco ardono insieme presso 
le porte dei misteri,
il mio cuore crepita come un braciere 
quando la parola
che Lui mi ha donato si eleva,
ogni creatura possiede il Suo respiro e la natura intera gli appartiene,
la luna e le stelle s’inchinano, le stagioni 
più belle della terra sono con Lui
e chi procede nel Suo nome sarà salvo 
dalle schiere
degli angeli caduti, raccolto nella Sua luce,
la vita e la morte sono i doni di Dio, il tempio
del tuo corpo la Sua fortezza, l’altare 
dei tuoi occhi
per la Sua preghiera, chi compie la guerra, 
chi nutre i serpenti
dell’odio vedrà piangere il volto del Bambino, 
e Sua Madre
con un vestito nero tergergli le guance, 
anche lo stelo d’erba
e la più piccola farfalla sono nella grazia di Dio,
non temere mai il regno della materia,
la tua unica verità sarà sempre l’amore,
ciò per cui sei stato creato e sarai chiamato
a risorgere.

Isabella Esposito
 

Data di aggiornamento: 12 Aprile 2024
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