A scuola di «empowerment»
Ci sono stati anni in cui entrare in un liceo occupato aveva il sapore della trasgressione e del caos creativo, un momento della vita in cui agire sul filo dell’illecito era ancora tollerato come ragazzata. Gli adulti che hanno ancora questa idea delle occupazioni scolastiche autunnali non ne vedono probabilmente una da quando al liceo ci andavano loro e resterebbero molto stupiti di che cosa significa occupare una scuola oggi. Agli scrittori e alle scrittrici capita almeno una volta all’anno di essere invitati alle autogestioni e la prima reazione è sempre l’ammirazione: superata la barricata di banchi e sedie che sbarra l’ingresso, di solito il livello di organizzazione, di disciplina e di programmazione che impronta questi piccoli mondi autarchici è tale da farti chiedere che cosa succeda di più o meglio nei giorni di lezione ordinaria. Gli inviti per gli ospiti esterni in quei casi arrivano da scuole di ogni tipo e posizionamento geografico e poi ciascuno sceglie.
Io quest’anno ho accettato di andare al liceo ginnasio Tasso, storica scuola dei figli della buona borghesia romana, dove hanno studiato Ettore Majorana e Giulio Andreotti, ma anche Luciana Castellina e Luigi Pintor. La classe di appartenenza conta ancora molto nella composizione di una popolazione studentesca, perché la scuola pubblica dovrebbe essere il luogo in cui la provenienza familiare viene riequilibrata da un’istruzione uguale per tutti e dovrebbe fare in modo che il luogo da cui parti non decida quello in cui puoi arrivare. Gli studenti e le studentesse mi hanno chiesto di discutere con loro di libertà di espressione, di parola e di dissenso proprio il giorno in cui venivo dalla partecipazione alla prima udienza di un processo dove in gioco c’erano e ci sono esattamente quei valori democratici: la causa che la presidente del consiglio Giorgia Meloni ha intentato contro lo scrittore Roberto Saviano, che secondo lei ha superato i limiti della legittimità nel criticarla sulla morte di un neonato migrante per mancato soccorso.
Se quei limiti siano stati davvero superati dal punto di vista legale dovrà essere un giudice a deciderlo, ma dal punto di vista civico quello è certamente un caso di cui si può e si deve discutere in una scuola, il luogo in cui si formano le coscienze e le cittadinanze del futuro e si esercitano al massimo delle loro potenzialità quelle del presente. Nessun posto era più giusto per ricordare il principio ovvio, ma spesso dimenticato, che maggiore è il potere a cui ci si rivolge, più ampi sono i margini della critica che gli si può fare. Invece è suonato quasi rivoluzionario ripeterlo in un presente in cui maggiore è il potere che contesti, più forte è la paura che cerca di incuterti, portandoti in tribunale in modo intimidatorio – pratica che posiziona l’Italia al 58° posto nella classifica della libertà di stampa – o emettendo decreti per criminalizzare il dissenso organizzato.
La domanda che però mi è stata rivolta non era sulla libertà di parola, ma sul diritto di essere ascoltati. «Come facciamo a farci sentire dai politici? – mi hanno chiesto i ragazzi –. Le manifestazioni non servono più a niente, non ci ricevono neanche». Ho trovato commovente l’idea che persone così giovani riponessero così tanta fiducia nella politica, dalla quale si aspettano ascolto e risposte, mentre milioni di adulti, assai più disillusi, è da cosi tanto tempo che non si aspettano niente dalla politica che non vanno nemmeno più a votare. Ho però trovato un po’ conformista e limitante che persone come gli adolescenti, con un potenziale di energia come forse non lo avranno mai più nella vita, si aspettassero di «essere ricevuti» dal mondo degli adulti. C’è una metafora potente in questa espressione ed è stato bello poter dire a quegli studenti che il vero potere non si chiede, ma si esercita quando si diviene consapevoli di averlo già. Si chiama empowerment ed è un insegnamento che viene dritto dal movimento dei neri americani che lottavano contro il razzismo e la segregazione ed è poi diventato patrimonio di tutte le comunità discriminate.
Oggi, in un’Italia dove un abitante su quattro ha più di 65 anni e questa percentuale è destinata a raddoppiare entro il 2030 anche per le emigrazioni all’estero, nessuno è più discriminato dei giovani nelle scelte di governo. Nella bolla perfetta dell’autogestione scolastica, dove gli scrittori, gli intellettuali e le voci militanti possono entrare senza passare dalle pastoie burocratiche e dalle timidezze delle dirigenze scolastiche più timorose delle reazioni politiche dei genitori, è stato bellissimo poter dire che la libertà di espressione è di chi la esercita e che forse aprire un canale YouTube per parlare agli studenti di tutta Italia è una modalità per farsi ascoltare molto più efficace che cercare di bussare inutilmente alla porta dell’ufficio di un Ministro che non ti riceverà mai. Le facce dei ragazzi, stupiti all’idea di avere un potere che non stavano esercitando, sono valse la fatica di superare le barricate di banchi e sedie che filtrano simbolicamente il mondo degli adulti da quello dei giovani. Può essere bello scoprire che se sei nei guai e la cavalleria non arriva, probabilmente è perché la cavalleria sei tu.
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