Tutti nasciamo poveri
La nascita di ciascuno di noi è un’esperienza di povertà: veniamo al mondo senza nulla di proprio (se non il nostro corpo) ma soprattutto con l’impellente bisogno che qualcuno si prenda cura di noi, dal momento che è in gioco la nostra stessa sopravvivenza. In tal senso, una delle dimensioni più scandalose del Natale è che Dio stesso abbia voluto attraversare questo evento: nascere come uomo in una situazione di non autosufficienza davvero paradossale per il creatore del mondo. Sembra che abbia voluto partire da zero, come noi, condividendo quella condizione di nudità che nel libro della Genesi è sinonimo di creaturalità. «Nudo uscii dal seno di mia madre» afferma Giobbe: questa è la situazione iniziale, il punto di partenza di una progressiva vestizione, fatta con abiti materiali, culturali e relazionali.
Il primo tipo di abito, quello materiale, è l’insieme dei beni che servono per condurre la nostra vita fisica (il cibo, il vestiario). Loro tratto caratteristico è la caducità, cioè l’essere soggetti al deperimento e alla consunzione: chiedono di essere cambiati e rinnovati. Il vestito di un bambino presto diventa stretto, quello di un adulto prima o poi si logora; anche il cibo nutre perché viene consumato.
L’abito culturale è costruito a partire dalla nostra conoscenza del mondo, dall’acquisizione del sapere, dal contatto con l’arte, la musica, la letteratura, le scienze, con tutto quanto l’uomo ha prodotto grazie alla sua intelligenza e creatività. Ne fanno parte le fiabe ascoltate prima di dormire, l’educazione scolastica, l’informazione mediatica, tante altre (e varie) occasioni di misurarsi con la dimensione culturale umana. Questo abito, più che cambiare o logorarsi, si approfondisce, si amplia, cercando di colmare le zone buie dell’ignoranza.
Un terzo abito è quello che chiamerei relazionale: noi ci vestiamo anche della rete di relazioni che intrecciamo fin dalla nostra infanzia. La cura e l’affetto dei genitori (o la mancanza di essi), l’amicizia dei coetanei, l’amore, ma anche il disprezzo, la svalutazione, l’odio… tutto questo chiama in causa un aspetto profondo della nostra vita che è la capacità di fidarci: senza di essa, la relazione rimane superficiale e inconsistente. Di più, senza fiducia viviamo nell’angoscia, in un’ansia perenne. Anche l’abito relazionale ha bisogno di essere rinnovato: quante volte perdiamo l’amicizia perché la diamo per scontata, quante volte la nostra relazione con Dio è uguale a quella che avevamo da bambini…
Rispetto a questa dotazione che acquisiamo nel tempo c’è un rischio al quale siamo esposti: quello di impossessarci di questi abiti, come se fossero nostri da sempre. Vivere dipendendo dal cibo o dal vestito, oppure usando la nostra cultura come strumento di potere (senza riconoscerne i limiti) o manipolando le nostre relazioni nell’illusione di mostrare che siamo noi il centro dell’universo. L’immagine, la conoscenza o posizione sociale, le idee sulla fede o le stesse azioni di carità, quando diventano degli assoluti, finiscono per renderci schiavi (soprattutto di noi stessi).
In tutto ciò ci aiuta molto san Francesco e la sua scelta di vivere senza nulla di proprio, cioè senza appropriarsi di nulla: questa è la via per evitare che quell’abito diventi «tutta la nostra ricchezza», da cui la nostra vita dipende. Tuttavia, il santo di Assisi non è stato un amante della povertà in quanto tale, ma perché gli consentiva di affermare concretamente nella sua vita, nei confronti di Dio: «Tu sei tutta la nostra ricchezza a sufficienza» (cfr. Lodi di Dio Altissimo, Fonti Francescane 261). Cogliamo allora l’occasione di questo Natale per ricordare che non ci siamo fatti da soli e riflettere sul nostro originario essere mancanti e bisognosi.
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