Senza paura, contro le ingiustizie

Comunità sopravvissute al conflitto armato salvadoregno alzano la voce contro l’autoritarismo di Bukele.
21 Novembre 2022 | di

Mirtala Reyes Ramírez ricorda che, il giorno in cui il suo compagno è stato arrestato, ha mantenuto la calma. Erano circa le tre e mezza del pomeriggio e stava cuocendo le tradizionali pupusas, quando, all’improvviso, una pattuglia si è fermata davanti alla sua casa di La Limonera, una delle tante località che punteggiano la regione del Bajo Lempa, nell’oriente di El Salvador. Dal veicolo della polizia sono scesi otto agenti. Uno di loro, dal volto incappucciato, si è diretto verso José Vladimir García Cruz, il compagno di Mirtala, e, senza nemmeno salutare, gli ha detto: «Sei tu».

Era l’11 aprile 2022 e, a seguito di una forte impennata di omicidi, il governo del presidente Nayib Bukele aveva da poco imposto un controverso stato di emergenza per reprimere la violenza delle gang Mara Salvatrucha 13 e Barrio 18. Oltre a sospendere garanzie costituzionali come il diritto alla libertà di riunione e di associazione e il diritto alla difesa, la nuova misura ha dato il via ad arresti di massa di chiunque fosse presumibilmente legato alle suddette organizzazioni criminali.

Mirtala non sa come quel giorno sia riuscita a controllarsi. «Perché? Che cosa ha fatto? Dove lo portate?», ha più volte chiesto alla polizia. Suo figlio maggiore, di appena 9 anni, ha invece gridato così forte che i vicini sono accorsi angosciati. «I miei figli sono rimasti traumatizzati. Il più grande piange: si rende conto della situazione. La bimba di 4 anni dice che la polizia è cattiva perché ha portato via suo papà – racconta –. Da quel giorno si sono ammalati spesso e non sono quasi più andati a scuola».

A oggi, secondo il ministro della Sicurezza, sono state arrestate più di 50 mila persone, aggravando le condizioni del sistema penitenziario più sovraffollato dell’America Latina. Mentre il governo sostiene che tutti i carcerati sono membri o collaboratori delle gang, diverse Ong hanno denunciato che centinaia di persone sono state detenute arbitrariamente solo perché hanno tatuaggi – anche se artistici e non relativi alle gang – o perché hanno precedenti penali.

Nonostante il clima di intimidazione che regna nel Paese, Mirtala e un gruppo di compaesane hanno deciso di lottare per difendere i loro parenti. Accompagnate da organizzazioni per i diritti umani, a maggio hanno presentato alla Corte Suprema di Giustizia di San Salvador trentanove petizioni di habeas corpus, una misura legale utilizzata per fare comparire immediatamente la persona detenuta davanti a un tribunale, in modo che il giudice possa decidere se la detenzione è legittima o meno. Per ora questa è stata l’unica azione del genere. E non è un caso che siano state le comunità del Bajo Lempa a realizzarla.

Durante la guerra civile salvadoregna (1980-1992), la popolazione di questa zona è stata duramente perseguitata, massacrata dalle forze armate. «La repressione oggi in atto è la stessa che i nostri genitori hanno vissuto durante la guerra, stiamo regredendo di 40 anni. Lo Stato risponde alla violenza con più violenza, ma non è così che costruiremo una società di pace e giustizia» avverte José Salvador Ruiz, leader delle Comunidades Eclesiales de Base (Ceb) del Bajo Lempa: gruppi di cristiane e cristiani interessati ad andare al fondo delle questioni sociali, ispirati da quella che l’arcivescovo martire e santo di San Salvador, Óscar Romero, chiamava «la dimensione politica della fede a partire dall’opzione per i poveri».

L’aumento delle catture nel Bajo Lempa ha allarmato José Salvador. Con gli arresti è arrivata la paura e, con la paura, la stigmatizzazione delle famiglie dei detenuti: vittime non solo dell’arbitrarietà istituzionale, ma anche della diffidenza dei loro vicini. Nel tentativo di sovvertire questa spirale di terrore e sospetto, i membri delle Ceb hanno organizzato una riunione con le famiglie per conoscere la loro versione dei fatti. «È stato doloroso: ci hanno detto in lacrime di essere stati maltrattati e ignorati dalle autorità – ricorda José Salvador –. Come Ceb non potevamo rimanere con le mani in mano».

Con il sostegno di varie associazioni, hanno redatto gli habeas corpus e organizzato un viaggio collettivo alla Corte Suprema di Giustizia di San Salvador, dove hanno denunciato pubblicamente gli abusi del regime. «La Corte è l’ultima istanza nazionale a cui rivolgersi, se non risponde dovremo ricorrere alla Commissione interamericana per i diritti umani o alla Corte penale internazionale perché si tratta di crimini contro l’umanità» afferma Alejandro Díaz, avvocato di Tutela Legal María Julia Hernández, associazione che fornisce consulenza giuridica gratuita alle vittime.

«Abbiamo sofferto la guerra, ma ora forse è peggio. Prima sapevamo che c’era una guerra e che dovevamo scappare: ora non ci danno la possibilità di difenderci» spiega Marlene González, anche lei abitante de La Limonera. I suoi fratelli, José Roberto e Francisco Alexander Celaya, sono stati arrestati il 9 aprile mentre uscivano dall’ambulatorio in cui quest’ultimo era stato medicato per le sue precarie condizioni di salute.Nel suo dossier di giugno, l’organizzazione Cristosal ha documentato che nelle carceri mancano medicine, e avvengono in abbondanza torture, vessazioni e persino decessi.

A maggio, 12 detenuti sono morti nel carcere di Izalco, nell’Ovest del Paese, e 6 nella prigione più grande di San Salvador, conosciuta come Mariona. Proprio qui, secondo le poche informazioni ricevute, sarebbe rinchiuso il compagno di Mirtala. «È un bene che siamo andate tutte insieme a presentare gli habeas corpus – dice la giovane –. È un modo per dimostrare che non abbiamo paura e che, nonostante le avversità, dobbiamo sempre trovare un modo per andare avanti».

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Data di aggiornamento: 21 Novembre 2022

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