Pane nostro
Le spighe di grano oscillano al vento e, frusciando, annunciano la loro maturazione. Nel campo c’è un grande vociare, si discute nel dialetto di queste parti, chi si trova da un lato fa ampi gesti a qualcun altro dall’altra parte. Spuntano bandiere colorate, alcuni suonano antichi strumenti. Poi, al segnale convenuto, giovani e meno giovani iniziano a mietere meglio e più veloce che possono lungo la loro corsia. Sì, è una gara. Dietro di loro le donne raccolgono le gregne (ossia le fascine) e le accumulano in un piccolo covone che qui chiamano vurredda: il primo che lo completerà avrà vinto, una vittoria che andrà confermata dai giudici chiamati a verificare che le spighe siano state tagliate con la giusta cura, senza sprechi o imprecisioni. Siamo nelle campagne di Caselle in Pittari, minuscolo borgo nell’entroterra cilentano, dove da 18 anni ogni luglio si tiene il Palio del Grano. Una grande festa di popolo che attira spettatori dalle valli circostanti. Non è folclore: qui la cultura del cibo, e in particolare del pane, è rinata grazie a un gruppo di giovani che ha scelto di fare della propria terra una fonte di sostentamento e un collante per la comunità.
Antonio Pellegrino, classe ’77, è uno dei soci fondatori della Cooperativa sociale «Terre di Resilienza». Prima della gara, sotto il grande albero al centro dell’aia, parla al folto gruppo di persone che ha raggiunto questo angolo di Campania per un camp di 7 giorni con workshop su coltivazione, macinazione e panificazione. Giorni di confronto su temi come il paesaggio, la ruralità, l’identità dei luoghi. Il camp si tiene ogni anno e i partecipanti arrivano anche dell’estero, grazie al Progetto Erasmus e alla Rete Semi Rurali. «Nel 2004 seminammo per la prima volta il campo del Palio – racconta Antonio –. Io non sapevo ancora nulla di queste cose. Poi, nel 2008, fondammo la prima biblioteca dei grani antichi affidando ai contadini locali le varietà di grano che eravamo riusciti a recuperare. Ma il loro modo di coltivare era ancora molto condizionato da metodi che noi ritenevamo dannosi, come l’uso di nitrati. E poi erano stati proprio loro, o i loro genitori, ad abbandonare quelle varietà antiche in favore di altre più redditizie. Per cui la nostra proposta non attecchì. Nel 2012 decidemmo dunque di fondare la Cooperativa e coltivare noi in prima persona. Lo facevamo “clandestinamente” in terreni che ci erano stati prestati, senza regolari contratti di affitto».
Per risolvere e regolarizzare la situazione, i soci della cooperativa guardarono al passato: un tempo, nel Regno delle Due Sicilie, esistevano i Monti Frumentari, confraternite laiche nate per garantire che ogni anno ci fosse la semina. «In anni difficili, le famiglie già a marzo avevano finito le riserve di grano e non ne avevano più da seminare per il nuovo raccolto – spiega ancora Antonio –. Allora si rivolgevano al Monte Frumentario che dava a ciascuna famiglia un tomolo (un recipiente da circa 40 kg) con il grano da seminare, chiedendo però che, dopo la raccolta, venisse restituito colmo, ossia con una montagnetta che rappresentava circa il 5 per cento in più (da qui il nome di Monte)». I Monti dunque affidavano seme e ricevevano grano con il quale potevano fare la carità a chi era in situazioni particolarmente difficili. Nel ’600 vennero aboliti ufficialmente, ma in alcune zone del Sud sono riusciti a sopravvivere fino agli anni ’20 del secolo scorso. «Qui a Caselle in Pittari – prosegue Pellegrino – il Monte faceva 136 affidi, quindi sfamava praticamente tutto il paese. Non solo, contribuiva a un miglioramento genetico del grano. Un tempo i vecchi dicevano: "Il seme deve sempre girare". E così facevano i Monti: il seme che arrivava dal campo di Tizio non veniva ridato a lui, ma lo si affidava a Caio che aveva un campo con caratteristiche leggermente diverse. Così si potevano selezionare le varietà più adattabili o più resistenti».
Per i ragazzi della Cooperativa il passo successivo è stato quello di diventare anche mugnai: grazie all’aiuto della Chiesa Valdese, sono riusciti a costruire un mulino dove si macina il grano dei compari, come vengono chiamati i coltivatori appartenenti al Monte. Oggi sono 26 e seminano circa 100 ettari tra le provincie di Salerno, Napoli e Avellino con 13 varietà di grano diverse, le stesse con cui nel 2008 era stata fondata la biblioteca dei grani antichi. La farina del mulino viene poi venduta sul territorio senza passare dalle grandi catene di distribuzione, ma puntando a creare rapporti di collaborazione e consapevolezza tra coltivatori e consumatori. «Non vogliamo considerare la nostra farina e il nostro pane dei semplici “prodotti”: quelli li crea l’industria – tengono a precisare i soci della Cooperativa –. In tutto ciò che facciamo non c’è folclore: qui si studia e si realizza. Si fa pratica. Del resto, non abbiamo inventato niente: mangiare il proprio pane è la cosa più semplice del mondo».
In tempi incerti (la guerra in Ucraina ha purtroppo riacceso il dibattito su grano e autosufficienza alimentare), questi ragazzi hanno aperto una via, hanno deciso di scommettere sulle loro terre perché credono in un Mezzogiorno capace di una rivoluzione culturale e colturale. Hanno persino scritto, nel 2014, la Magna Carta della Ruralità Contemporanea. «Vogliamo riscoprire il senso dei luoghi – dicono –. Transizione e innovazione sociale sono pratiche che nascono dalla terra e dalla solidarietà. Per essere credibili, alcune visioni del mondo bisogna prima praticarle e poi predicarle».
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