Amami per come sono
L’adolescenza al tempo del covid e della guerra in Ucraina non è più l’età dei sogni e delle speranze di futuro. A dimostrarlo i dati di un’indagine condotta annualmente dall’associazione Laboratorio adolescenza e dall’Istituto Iard su un campione rappresentativo di studenti tra i 13 e i 19 anni. Il futuro preoccupa il 52,7 per cento degli adolescenti, mentre gli ottimisti sono solo il 14 per cento. La domanda delle domande è se questo stato di malessere e sfiducia sia causato dalle condizioni di vita avverse di questi ultimi anni o se i fatti negativi che stiamo vivendo abbiano portato a galla problemi latenti e irrisolti.
Secondo Maurizio Tucci – presidente del Laboratorio adolescenza – coinvolto nella ricerca, «passare dalla Dad alla guerra, senza soluzione di continuità, ha reso gli adolescenti ancora più fragili», ma le condizioni contingenti non bastano a spiegare tutto: «La considerazione più amara, sulla quale siamo chiamati tutti a una profonda riflessione, è che il panorama che questi adolescenti vedono del loro futuro quando si affacciano alla finestra lo abbiamo costruito noi, pezzo per pezzo».
I dati parlano anche di una sorta di lento ma inesorabile scollamento tra le generazioni, come se la relazione tra genitori e figli si stesse progressivamente sfilacciando. Una percentuale crescente di adolescenti pensa che la vita in famiglia sia conflittuale e critica. Lo pensano soprattutto le ragazze con un preoccupante 26 per cento, contro il 16 per cento dei ragazzi. Ma anche la relazione con il gruppo dei pari è in sofferenza: il 18,2 per cento delle ragazze e il 16 per cento dei ragazzi trovano difficili o insoddisfacenti i rapporti con gli amici.
Adulti inconsapevoli e piccoli re
Insomma a traballare non è soltanto la fiducia nel futuro ma anche il rapporto con gli altri, a più livelli. Abbiamo sottoposto i dati più significativi della ricerca a Daniela Lucangeli, psicologa dello sviluppo, docente dell’Università di Padova, per capire che cosa ci stia sfuggendo.«Il problema vero è che ci stanno sfuggendo loro – incalza la professoressa – non siamo cioè consapevoli di che tipo di vita interiore stiano vivendo. L’adolescenza non è mai stata un’età facile, perché essa è da milioni di anni un passaggio evolutivo fondamentale, che porta alla maturazione della propria identità. Il problema è che in un tempo come il nostro non è chiara l’identità».
Un fallimento educativo, dovuto a diverse ragioni, che coglie i genitori impreparati e spesso inconsapevoli: «Fino a che sono bambini li mettiamo al centro della nostra tensione affettiva, li copriamo di attenzioni e concentriamo su di loro il nostro desiderio di “quasi perfezione”, tanto da trasformarli in “piccoli re”. A un certo punto, proprio per dettato di specie, il piccolo re inizia il cammino verso la propria identità, passa dall’eteronomia, cioè dall’essere guidato dagli altri, all’autonomia, quindi all’autoaffermazione. Ebbene, a quel punto noi genitori veniamo spiazzati, non lo riconosciamo più e non lo sappiamo guidare, perché il piccolo re comanda, pretende, allontana».
In questo processo i genitori, pensando di fare il bene, tendono a compiere due errori: da un lato anticipano i desideri del bambino sostituendosi a lui e dall’altro, per mancanza di tempo, compensano la loro assenza immergendolo in mille attività: «Così, al contempo, li riempiamo di attenzioni e li espropriamo di attenzioni» chiosa la professoressa. Un comportamento contraddittorio, che genera insicurezza: «Di fatto in questo modo non li abbiamo educati a desideri di futuro – continua Lucangeli –, ma a routine di compensazione dei bisogni momentanei. Siamo una generazione di adulti che non ha compreso l’importanza di crescere insieme ai propri figli, di crescere dunque come padri, madri, nonni. Sappiamo ripetere solo la modalità infantile».
A dimostrarlo anche la scarsa capacità degli adulti di intavolare un dialogo con i ragazzi: «Più che dialoghi sono interrogatori – afferma la professoressa, con un pizzico di ironia –. Frasi del tipo: “Com’è andata a scuola?”, “Che cosa hai fatto oggi?”, “Perché non mi parli di te?” non sono esattamente quello di cui hanno bisogno». La professoressa Lucangeli è una studiosa, ma ha una conoscenza diretta della situazione, in quanto anima iniziative d’incontro con genitori, educatori e ragazzi, come «Scienza servizievole in cammino», un «pellegrinaggio educativo» che ha toccato la scorsa estate varie parti d’Italia. La lettera di Giovanni, 16 anni, suona come un grido di allarme: «Vi do qualche suggerimento, prof, per voi e i vostri congressi sapienti. Fabbricate pillole di gioia in parole opere e omissioni. In parole: tornate a dialogare con chi mettete al mondo. In opere: cominciate a vivere insieme a chi mettete al mondo. In omissioni: omettete il vostro peso dalle loro ali».
Alla ricerca del noi
La lettera di Giovanni svela senza mezzi termini il bisogno dei giovani di essere ascoltati e di vivere assieme, senza sovrastrutture e senza passare al vaglio delle aspettative del mondo adulto. Arrivare a questo tipo di dialogo non è scontato né veloce: «Per arrivare a un contatto bisogna aver prima generato un confronto autentico. E per farlo bisogna mettersi in gioco, parlare di sé ai propri figli e ai propri nipoti, per ritornare al noi, una qualità che è recuperabile solo se ci si rende conto della sua mancanza». Un punto di partenza che capovolge il senso dell’educare: «Educare significa “portare fuori” la parte migliore del ragazzo, ovvero nutrire le sue qualità senza negare le sue vulnerabilità».
Un guardare al futuro che è al contempo un recupero dei «maestri» del passato: «Un adulto davvero capace di seguire l’insegnamento, per esempio, di don Milani – continua la professoressa – mette l’“I care” al primo posto, nella giusta accezione. La parola d’ordine è “tu mi stai a cuore”, non “io ti curo”: in questo caso il figlio è l’oggetto delle mie qualità adulte; nel primo, il figlio è al centro della relazione ed è il mio fine. In questa differenza sostanziale sta il potere educante». Nel contesto della crisi educativa che già covava sotto la cenere della normalità sono esplose la pandemia e la guerra, rendendo più evidenti i cortocircuiti educativi. «Quando accade una tempesta non prevedibile essa fa emergere ciò che abbiamo buttato in mare: se abbiamo buttato immondizia, non tireremo su fiori – rimarca la professoressa –. Abbiamo alle spalle decenni di conflittualità repressa, di rabbia, di emozioni che ci hanno tenuto costantemente in allerta, in ansia. Quanto ci sta succedendo ora è un’occasione per costruire un altro tempo». «Ma per farlo – continua –, non basta volerlo, bisogna saperlo agire. Occorre rieducare gli stati interiori, comprendere l’importanza di passare dall’io al noi, riacquistare fiducia nell’altro, affinare la capacità di essere liberi ma non soli».
Un processo che non s’improvvisa, si matura. Che fare, però, se si è ormai dentro il loop educativo? «Ai genitori in crisi dico: uscite, andate a cena, al cinema, a ballare se occorre, create momenti del noi, a costo anche di sedervi semplicemente a fianco e stare zitti – risponde Lucangeli –, diminuendo le emozioni che ci fanno male e aumentando quelle che ci fanno bene. L’importante e che li si tratti come identità con cui ci si confronta. E, a poco a poco, il noi ritorna. I nostri figli in realtà hanno bisogno di un’intimità interiore con noi, di essere visti da noi, di sapere che noi siamo felici di essere i loro genitori, nonostante i reciproci limiti».
In questi anni di pandemia la scuola ha avuto un ruolo importante perché ha dato una parvenza di normalità in una situazione del tutto anomala. Tuttavia, dalla ricerca emerge che il 70 per cento dei ragazzi ritiene che la propria formazione sia stata penalizzata abbastanza o molto dalla scuola a distanza. Ma il dato più preoccupante è che il 33 per cento degli intervistati, in maggioranza maschi, pensa di non iscriversi all’università, contro il 22,9 per cento del 2018. Dati particolarmente gravi in un Paese, l’Italia, che è al penultimo posto in Europa per numero di laureati tra i 24 e i 34 anni (Eurostat). «Ho più volte riflettuto sulla scuola in tempo di pandemia e credo che se abbiamo retto come Paese è perché, paradossalmente, la scuola ha retto – afferma Lucangeli –. Ma ha retto in un senso specifico: nel mostrarci la scuola che ci manca. Non ci è mancata la scuola che ingozza, che verifica, che giudica, ma la scuola in cui stare con gli altri e crescere assieme».
Tuttavia, dopo la fase più critica dell’emergenza, la scuola rischia ora di perdere la sua occasione per il cambiamento: «È ritornata nelle sue routine deboli, ha messo tutti sotto verifica e non è riuscita al momento a fare lo scatto suggerito da quel periodo di struggente nostalgia». La lettera di Barbara Occhialetti, seguita da 100 firme di esponenti di gruppi studenteschi, è lì a dimostrarlo: «Cara prof, si ricorda quando ha detto che la scuola ci manca? E di non sprecare questa consapevolezza...? È vero. A noi ragazzi manca tanto... troppo. E ci manca in una strana maniera… come quando ci manca l’amore e lo desideriamo, non come lo abbiamo già vissuto ma come vorremmo che fosse... Allo stesso modo ci manca la scuola… Noi ragazzi siamo pronti ad arrampicarci su per le scoscese salite della nostra formazione, superando i nostri limiti, in cordata guidati dai nostri prof in piena fiducia… Ma loro, i prof, sono pronti? Voi siete pronti? A voi manca esserci maestri?». Ancora una volta una richiesta di attenzione nei confronti del mondo adulto e un rifiuto di un sistema scolastico sentito come lontano, repressivo, insignificante. Se non si raccoglie questa richiesta, qualcos’altro occuperà la mancanza.
Voglia di volare
Non è un caso che la ricerca rilevi il ruolo crescente degli influencer e dei fashion blogger sugli adolescenti, soprattutto per quanto riguarda il loro rapporto con il corpo e con il cibo. Un condizionamento ammesso dal 59,1 per cento dei maschi e, addirittura, dal 77,6 per cento delle femmine. Un ruolo talmente importante da surclassare in parte anche quello degli amici. «Questa età per la nostra specie ha bisogno di modelli di riferimento significativi, in cui specchiarsi. Nel momento in cui questi sono deboli, gli influencer spopolano, perché, pur essendo un modello “ologramma”, a loro non vengono attribuite le colpe dell’adulto in carne e ossa, che ha deluso, abbandonato, giudicato. Questi esseri si trovano a ereditare la necessità del rispecchiamento».
Una difficoltà che si allarga al gruppo dei pari: «Ciascun ragazzo e ragazza si rispecchia a sua volta con coetanei altrettanto vulnerabili – continua Lucangeli –, in assenza anche qui di modelli significativi che arginano e contengono. Si stanno quindi affermando modelli scomposti, “fluidi” li chiamano i ragazzi, che vanno dalla fluidità di genere a quella di identità. Un problema ampiamente sottovalutato, spia di una scarsa consapevolezza del mondo adulto». Eppure sono i ragazzi e le ragazze stesse a suggerirci una strada e ad aprire la loro visione del mondo con un colpo d’ali: il 77,4 per cento delle ragazze e il 57,7 per cento di loro desiderano viaggiare, aprirsi a nuovi mondi, conoscere nuova gente e diverse culture. Un desiderio di 10 punti superiore rispetto alla precedente rilevazione. «Non è solo voglia di evasione – ne è convinta Lucangeli –, è un rimettersi in gioco, una richiesta di liberazione e al contempo una ricerca di nuovi confini».Un invito a immaginare inediti orizzonti educativi, una scommessa che non possiamo permetterci di perdere.
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