Sono soldi di coccodrillo?

Una provocazione bella e buona per mettere a fuoco i rischi che si celano dietro la grande filantropia internazionale. Che oggi più che mai è lo specchio di come agiscono l’economia e il potere nelle nostre società.
12 Ottobre 2021 | di

Meglio i milioni donati da Bill Gates o l’obolo della vedova? Il primo può salvare milioni di vite attraverso i soldi, i mezzi e gli stuoli di esperti della sua fondazione, la Bill & Melinda Gates Foundation, la seconda può magari sfamare un affamato. La domanda è volutamente provocatoria per mettere a fuoco un problema che ci riguarda tutti da vicino, ma che rischiamo di non vedere per due motivi opposti. Il primo è che alcuni di noi sono abbagliati dai risultati oggettivi ottenuti da Bill Gates in favore di popolazioni svantaggiate o nella lotta al covid-19, lasciando in secondo piano alcuni aspetti critici; il secondo motivo, al contrario, vede nell’azione filantropica di Bill Gates e degli altri super-ricchi come lui, solo un complotto planetario dalle oscure trame, una visione, quest’ultima, che però impedisce di andare al cuore della questione. Il problema infatti c’è, ma sta altrove. Ha a che fare non solo con il nostro concetto di dono, ma addirittura con il tipo di società che vogliamo costruire.

Potrà sembrare strano a prima vista, ma la filantropia per quello che è diventata oggi è lo specchio di come agiscono l’economia e il potere nella nostra società. Appena prima della pandemia, Oxfam, confederazione internazionale contro la fame, riportava che i 2.153 uomini più facoltosi del mondo possedevano più ricchezza del 60 per cento della popolazione del Pianeta tutta insieme e che il numero dei Paperoni era raddoppiato nell’ultima decade. L’accumulo di ricchezze – notano gli esperti – viaggia di pari passo con l’aumento di donazioni filantropiche da parte dei super-ricchi. A darne prova è il Wealth-X and Arton Capital Philantropy Report del 2016, un rapporto focalizzato proprio sulla filantropia di questa classe di persone, dal quale risulta che gli investimenti filantropici dei super-ricchi crescono ogni anno di più: nel 2015 erano cresciuti del 3 per cento, l’anno prima del 6,4 per cento. La notizia più interessante, però, è un’altra: i donatori che avevano investito almeno un milione di dollari nel corso della propria vita erano mediamente più ricchi dei loro pari che non lo avevano fatto. Ricapitolando, al crescere delle diseguaglianze, cresce l’impegno filantropico dei super-ricchi, i quali, nonostante le ingenti donazioni, diventano ancora più ricchi. È evidente che qualcosa non torna.

I robber baron del ’900

Il rapporto filantropia-accumulo di ricchezze non è casuale. La filantropia come la conosciamo oggi, è un’altra cosa rispetto all’obolo della vedova o al nostro impegno a favore di una buona causa. «Nasce nel ’900, in America, quando iniziano a formarsi i grandi capitali, come quelli di Andrew Carnegie, il magnate dell’acciaio, o John Rockefeller, il re del petrolio – afferma Lavinia Bifulco, docente di sociologia all’Università Milano Bicocca –. È da subito caratterizzata da un alto grado di istituzionalizzazione e di competenze organizzate. Serve a giustificare le grandi ricchezze dei pionieri del capitalismo e a mettere a tacere il malcontento delle classi povere, allontanando lo spettro del socialismo». La contraddizione inizia già agli albori della filantropia: «Da un lato questi magnati erano “robber baron” cioè sfruttatori senza scrupoli – continua la professoressa – e dall’altro generosi filantropi». La mano destra prende, la mano sinistra dà. Fatte salve le intenzioni reali di aiutare, che ci saranno pure state, la filantropia diventa per così dire un’azione di marketing, per legittimare la propria enorme ricchezza e il sistema che la rende possibile. Da allora gli Stati Uniti hanno un rapporto particolare con la filantropia, soprattutto perché essa supplisce alle carenze dello Stato sociale.

Delle oltre 200 mila Fondazioni del mondo – una galassia di entità molto varie, in cui si esprime buona parte della filantropia mondiale –, poco meno della metà, circa 87 mila, è registrata negli Stati Uniti, così come sono prevalentemente americani i più grandi filantropi del Pianeta.Tuttavia, per capire che cos’è la filantropia oggi bisogna spostare le lancette dell’orologio agli inizi degli anni 2000, tenendo presente che la fine del ’900, ha portato grandi cambiamenti all’economia mondiale. Il muro di Berlino è caduto, portandosi dietro l’ideologia comunista. Il capitalismo, rimasto ormai unica visione dominante nel mondo, ha iniziato a occupare tutti gli spazi, contagiando anche i Paesi comunisti. Negli anni l’economia si è globalizzata, si è progressivamente allontanata dall’economia reale, cioè dall’economia che produce i beni, per abbracciare i mercati finanziari. La finanza si è strettamente collegata alle nuove tecnologie che permettono, per esempio, di spostare ingenti capitali in tempo reale, ma che consentono anche di creare scatole cinesi per nascondere operazioni speculative illecite e pericolose che, come ha dimostrato la crisi del 2008, hanno messo a tappeto aziende e milioni di risparmiatori, provocato la chiusura di fabbriche, decimato posti di lavoro. Soldi che creano soldi, in velocità e in sostanziale assenza di controlli. Un capitalismo accelerato che privilegia chi ha il denaro, la tecnologia, il potere, creando concentrazioni di ricchezza mai viste prima e diseguaglianze tra ricchi e poveri in vertiginosa crescita.

I nuovi filantropi

n questo contesto, anche il mondo della filantropia subisce una profonda trasformazione. Dagli inizi degli anni 2000 in poi, i nuovi filantropi, in buona parte provenienti dai settori tecnologici – non solo Bill Gates, ma anche Jeff Bezos, fondatore di Amazon, Mark Zuckerberg, inventore di Facebook, Larry Page, creatore di Google, solo per citarne alcuni – mettono il turbo anche alla filantropia, guadagnandosi l’appellativo di filantrocapitalisti. A registrare questa svolta è ancora il Rapporto Wealth-X sulla filantropia, del 2016: «Le nuove generazioni stanno spingendo nuovi modelli filantropici, che combinano la filantropia tradizionale con gli affari». Business e filantropia non sono più due azioni separate, come lo erano un tempo, ma due facce della stessa medaglia. Il concetto è: «Io faccio filantropia, ma in cambio do una spinta al mio business, per esempio aprendomi nuovi mercati o creando legami con nuovi partner in affari». È la versione attuale del vecchio credo liberista: chi fa bene i propri affari, fa anche il bene della società. Secondo tale idea, il mercato, senza le regole di uno Stato ingombrante, raggiunge da solo una stabilità e si autoregola, promuovendo il benessere di tutti.

A smentire – per l’ennesima volta – questa teoria consolidata nei secoli, bastano alcuni dati del 2021. A un anno dall’inizio della pandemia, in piena crisi economica globale, il 9° Rapporto Wealth-X rivela che i super-ricchi sono cresciuti dell’1,7 per cento nel 2020; Oxfam aggiunge che: «Dall’inizio della pandemia il patrimonio dei primi 10 miliardari del mondo è aumentato di 540 miliardi di dollari complessivi: risorse sufficienti a garantire un accesso universale al vaccino anti-covid e assicurare che nessuno cada in povertà a causa del virus». Salta all’occhio che tra quei 10 primi miliardari ci siano anche i nostri filantropi. L’oligarchia del denaro è anche quella della filantropia. Ma perché i ricchi sono sempre più ricchi? Tenendo da parte i comportamenti opachi e truffaldini di chi porta le proprie ricchezze nei paradisi fiscali o usa «trucchi finanziari» per accrescere i propri guadagni, alcune ragioni che facilitano l’allargarsi delle diseguaglianze sono legali o causate da una mancanza o carenza di regole: per esempio, gli Stati Uniti concedono un regime fiscale molto favorevole a chi fa donazioni.

Secondo un’inchiesta del giugno scorso, condotta da ProPublica, una ong internazionale di giornalisti indipendenti, i miliardari statunitensi pagano pochissime tasse rispetto ai loro guadagni. Spaventose le cifre: nel 2019 sono stati donati 427,71 miliardi di dollari – riporta «Repubblica» –, per un impatto sul Pil del 5,6 per cento. E così Bezos, l’uomo più ricco del mondo, anche a fronte delle sue donazioni non ha pagato tasse nel 2007 e nel 2011; Elon Musk, Ceo di Tesla, il secondo più ricco al mondo, non le ha pagate nel 2018. I super-ricchi si difendono dicendo che preferiscono donare in filantropia piuttosto che pagare le tasse allo Stato; rimane però il fatto che mentre loro possono scegliere su quale buona causa investire i propri soldi, lo Stato deve risolvere ogni tipo di problema, dal rifare la rete fognaria alla manutenzione di un ponte.

A creare diseguaglianze ci sono anche ragioni legate all’assenza di regole, in un contesto economico che è diventato molto complesso e globale. Solo ultimamente, con fatica e con risultati deludenti, in Europa si sta cercando di far pagare le tasse ai giganti del web come Facebook, Google, Amazon, Apple, che, tra l’altro, si stanno arricchendo ulteriormente in questa pandemia. Per esempio, un rapporto realizzato da Mediobanca ha rivelato che nel 2018 le grandi aziende del web hanno versato «appena» 64 milioni di euro in tasse in Italia a fronte di 2,5 miliardi di euro di guadagni, sfruttando la lacuna legislativa che permette di spostare il fatturato in altri Paesi a tassazione minore. Rimane però la domanda di base: come mai questa inondazione di miliardi in filantropia non sortisce gli effetti sperati? È Nicoletta Dentico, giornalista ed esperta di cooperazione internazionale, che nel suo libro Ricchi e Buoni? (ed.Emi), la più documentata inchiesta sul tema, fornisce una risposta plausibile: «Ha senso che “i salvati” di un super-capitalismo truccato, progettato apposta per creare disuguaglianze, abbiano un ruolo di primo piano nella lotta alla povertà, cui contribuiscono per molte vie?» Come a dire: chi è parte integrante di un sistema che crea diseguaglianze, può combattere le diseguaglianze?

L’eclisse della politica

Il problema però non si ferma solo all’opportunità e all’efficacia dell’azione dei filantrocapitalisti. Diventa un problema politico. «In due decenni – continua Dentico – una nuova generazione di imprenditori iper-agenti filantropici si è guadagnata un ruolo di assoluto predominio nelle sedi della politica internazionale, a cominciare dalla Nazioni Unite. Il denaro ha conferito loro un potere che è in grado di possedere e prendere il posto del potere politico». Ma mentre un politico è eletto e virtualmente controllato da poteri che controbilanciano il suo, un filantropo come Bill Gates ha apparati ed esperti di grande livello, e l’autonomia di decisione di un capitano d’impresa. Quindi, in linea di principio, Bill Gates può agire in modo più rapido ed efficace di un qualsiasi Stato, senza dar conto a nessuno. «La filantropia – continua Bifulco – promette il nuovo, il cambiamento, e questo è molto attrattivo. Il punto è che nel caso specifico del filantrocapitalismo, il nuovo è il mercato o, meglio, un certo tipo di organizzazione capitalistica della società». La filantropia internazionale, in effetti, nel risolvere i problemi dell’umanità appare come un’entità tecnologica, scientifica, misurabile, leggera, efficiente, smart, mentre gli Stati appaiono, spesso a ragione, come istituzioni mastodontiche, obsolete, burocratizzate, poco efficaci. Ma la progressiva ritirata della politica lascia uno spazio sempre più grande a entità potentissime e non controllate, creando di fatto un problema di democrazia.

Quali potrebbero essere le conseguenze? La più insidiosa è che la visione del mondo viene piegata alle logiche dominanti dell’economia finanziaria. Logiche che impediscono anche a noi di capire se visioni alternative e migliori di società siano possibili. Sono anni, per esempio, che ci viene detto che lo Stato sociale – cioè quell’insieme di politiche pubbliche che proteggono i cittadini da rischi e li assistono nei bisogni essenziali – è un lusso che non ci possiamo più permettere, mentre ci viene assicurato che i privati potrebbero coprire con maggior efficacia ed efficienza molti servizi. Nessuno ha la ricetta per risolvere i problemi, ma temi così importanti per la nostra società dovrebbero essere trattati con libertà di pensiero: «Lo Stato sociale è presentato come una realtà che non funziona per definizione – continua Bifulco – , è il vecchio, mentre il superamento dello Stato sociale con formule pubblico-private è il nuovo». Anche ciò che è successo con la pandemia, gli ospedali al collasso, il personale insufficiente, la mancanza di attrezzature, i morti è legato a decenni di disinvestimento nella sanità pubblica: «Per anni in Italia si è detto che la sanità costava troppo – rincara Bifulco –. Oggi è evidente che non era vero. Ma cambiare una visione consolidata nell’opinione pubblica, anche con i dati alla mano, è difficilissimo».

Una sfida per il futuro

A ogni grave crisi, com’è adesso quella legata alla pandemia, «si ripropone la questione della distribuzione della ricchezza, la riflessione sul modello della società, la funzione del potere – afferma Davide Caselli, sociologo esperto di politiche sociali. – E ogni volta interessi e forze sociali si contendono la soluzione: c’è chi rema per il cambiamento e chi per conservare le cose così come stanno». Non è un caso che l’esplosione della filantropia dei super-ricchi sia seguita alla crisi finanziaria del 2008, che aveva evidenziato le falle del sistema economico dominante, quasi a dimostrare che quel sistema sapeva reagire. «In tutti questi anni nessuno si è mai chiesto perché le risorse pubbliche continuavano a decrescere, mentre i grandi patrimoni privati salivano. Oggi un dibattito sulla filantropia – conclude Caselli – è di fatto un dibattito sulla responsabilità del potere pubblico e di quello privato, rispetto alla vita associata. Su quanto c’è bisogno di Stato e, soprattutto, quale tipo di Stato, e su quanto invece se ne può fare a meno. C’è in corso un dibattito cruciale, a cui bisogna prestare attenzione». In gioco ci sono la difesa della democrazia e la costruzione di una società più giusta e inclusiva.


Puoi leggere il dossier completo, con le interviste a Nicoletta Dentico, direttrice del Society for International Development, Programma di salute globale, e a Stefano Zamagni, economista e presidente della Pontificia accademia delle scienze sociali (intervista a cura di Sabina Fadel), sul «Messaggero di sant'Antonio». Prova la versione digitale!

Data di aggiornamento: 12 Ottobre 2021
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