Umanità... artificiale
Dobbiamo al genio narrativo dello scrittore di fantascienza Isaac Asimov (1920-1992) il merito d’aver formulato le tre leggi della robotica, alle quali dovrebbero obbedire le macchine dal cervello positronico che compaiono nei suoi racconti. 1) Un robot non può recar danno a un essere umano e deve intervenire per prevenire tale danno. 2) Un robot deve obbedire agli ordini dell’uomo, salvo che contrastino con la prima legge. 3) Un robot deve proteggere la propria esistenza, salvo che ciò contrasti con la prima o la seconda legge. Funzionano davvero queste leggi, almeno nel mondo della fantascienza? In realtà no! Sia perché i termini adottati sono inevitabilmente ambigui, sia perché le situazioni concrete sono sempre più complesse delle leggi che vorrebbero ingabbiarle in generiche norme prefissate.
La letteratura sui robot ha anticipato alcune questioni attualissime per l’odierna roboetica, una disciplina che ha ormai i suoi congressi, libri, dizionari, enciclopedie, riviste, e che si interroga sui limiti morali e sulle responsabilità individuali o sociali connesse alla progettazione, alla costruzione e all’impiego di macchine «pensanti». Prendiamo l’esempio dei veicoli stradali a conduzione autonoma: che cosa devono decidere e in base a quali criteri, quando incontrano ostacoli pericolosi che possono essere evitati solo esponendo a rischi il passeggero umano? Altri dilemmi riguardano l’apparato militare, in cui certe difese antiaeree scattano prima che l’uomo se ne accorga, non appena un razzo nemico sta per cadere su una città amica. Consideriamo, infine, l’enorme raccolta di dati individuali riservati che i computer potrebbero accumulare e scambiare per finalità non semplicemente di welfare, ma di natura economico-commerciale.
Emancipazione robotica
Il film Autòmata (Spagna 2014) di Gabe Ibàñez affronta lo scenario apocalittico di una società umana che nel 2044 si è autodistrutta, ha bruciato il suolo con energia radioattiva, ha confinato fuori dall’unica megalopoli (abitata da 21 milioni di persone e difesa precariamente attraverso muri e vigilantes) i disgraziati senzatetto, le discariche postindustriali, la feccia sociale, incaricando i robot – i Pilgrim 7000 – di costruire nuove barriere emarginanti, di svolgere funzioni servili (militari, sanitarie, idrauliche, poliziesche, assistenziali, didattiche, domotiche) e di difendere gli interessi delle poche compagnie privilegiate. Tra queste ditte vi è la ROC, che vende i Pilgrim e nella cui sezione assicurativa lavora l’agente Jacq Vaucan (Antonio Banderas), il quale verifica il risarcimento dei danni prodotti da macchine malfunzionanti o disobbedienti.
Nella civiltà di Autòmata i «protocolli di sicurezza», cioè le leggi vincolanti, su cui poggiano i circuiti neuro-elettrici delle macchine, sono due: 1) non è permesso al robot di nuocere ad alcuna forma di vita; 2) neppure è loro permesso di modificare se stessi o altri robot. Ma queste regole non riescono a imprigionare la vitalità delle macchine intelligenti. Stranamente, forse per colpa di un imprendibile «orologiaio» impazzito o ribelle, gli automi sbagliano, imparano per tentativi ed errori, vivono proto-sentimenti, si coalizzano tra loro, si perfezionano, si curano l’un l’altro.
Troppi sono i debiti del film Autòmata verso Blade Runner di Ridley Scott (1982), L’uomo bicentenario di Chris Columbus (1999), A.I. Artificial Intelligence di Steven Spielberg (2001) e Wall-E di Andrew Stanton (2008); troppo scontata la recitazione del cast; troppo lenti gli snodi della trama per parlare di un film pienamente riuscito. Ma i robot semi-umani (fotografati meravigliosamente da Alejandro Martinez) conquistano la scena con la forza della loro emancipazione e con la speranza in un riscatto sociale.
Insistenti i richiami biblici: il deserto come esodo necessario verso una terra promessa (dove la pioggia non è acida e i bambini giocano con le tartarughe sul litorale oceanico), il servizio all’uomo buono come unica salvezza contro i potenti, l’acqua robotica che disseta e libera il figlio dell’uomo ferito, il parallelo tra la nascita di una bimba (figlia di Jacq e di sua moglie Rachel) e l’affrancamento degli automi (una nuova nascita) grazie a una verità che li ha resi liberi e grazie a un materiale miracoloso – il biokernel –, il nocciolo biologico che li sostiene come un segno sacramentale. C’è poi il tema della legge, che guida ma soffoca, contrapposta alla fede caritatevole, che salva trasgredendo, se occorre, il contenuto letterale della norma.
Anche per un robot la vita vera non è la sopravvivenza arrugginita e nascosta, ma la dedizione a una causa collettiva degna e felice, per la quale vale la pena di correre rischi e persino di sacrificarsi nel corpo, naturale o artificiale che sia. I film thriller distopici di fantascienza concentrano l’immaginazione etico-narrativa dello spettatore verso il tema della morte, che solo l’uomo conosce come propria possibilità e che gli apparati tecnologici ignorano, poiché gli ingranaggi rimpiazzano le parti difettose e aggiustano da sé i meccanismi guasti. Ebbene, la funzione può essere vicariata artificialmente, ma l’esistenza è insostituibile nei suoi affetti e nei suoi sogni. Basta che sugli androidi soffi un alito creatore ed ecco che essi anelano a evolvere e a bonificare, come in una seconda creazione, la terra che gli uomini – a causa della loro violenta avidità – hanno lasciato informe, deserta, vuota, tenebrosa, arida, senz’acqua, selvaggia e inospitale (come leggiamo all’inizio del libro di Genesi).
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