Fino alla fine
André Bernheim (André Dussollier), 85enne ex imprenditore e collezionista d’arte, un tipo brillante, sarcastico, imprevedibile e scontroso, ha avuto un ictus cerebrale. Divenuto emiplegico, è consapevole del carattere cronico della sua patologia cerebrale, ne inorridisce e chiede alla figlia Emmanuèle (Sophie Marceau), scrittrice e sceneggiatrice parigina, un aiuto a interrompere la propria vita, divenuta per lui ormai indegna di essere vissuta. Andrè non riesce a godere psicologicamente dei benefici oggettivi che le cure producono su di lui e, così, prevalgono vissuti depressivi. Accade, quindi, che il padre ripeta alla figlia la medesima, ossessiva domanda: «Mi aiuti a farla finita? Mi stai aiutando? Hai consultato qualcuno?».
Emmanuèle gli vuol bene e contatta un’associazione svizzera per il suicidio assistito. Lo fa con imbarazzo e sofferenza, dato che lo vorrebbe ancora vicino a sé, ma lo fa comunque, con l’aiuto della sorella Pascale (Géraldine Pailhas), nonostante il padre abbia per troppo tempo trascurato le proprie figlie. Non è, del resto, la prima volta che Andrè pensa alla morte volontaria. Gli era accaduto in occasione del divorzio dalla moglie (Charlotte Rampling), che lo viene ora a trovare con faticosa riluttanza in ospedale, messa anch’ella a dura prova dal proprio morbo di Parkinson e dai disordinati trascorsi sentimentali di un marito infedele. Altro elemento d’inquietudine è rappresentato da Gerard (Grégory Gadebois), un amante gay del protagonista. Gerard è un trasandato alcolista in cerca di consolazione affettiva e di qualche quattrino.
Tra pietà e integrità
Si ripropone, nel film È andato tutto bene (Tout c’est bien passé, Francia 2021), il classico dilemma etico tra pietà e integrità morale, tra rispetto dell’autonomia (l’esplicito desiderio del padre) e difesa della vita, tra l’esecuzione di una direttiva pro-suicidio e l’elaborazione di un comprensibile dissenso morale tra paziente ed entourage. Il film purtroppo non ricostruisce il lungo, faticoso percorso di comunicazione e discernimento, che è solitamente necessario per assumere una scelta responsabile su questi temi. Emmanuèle dà per scontato che tanto, prima o poi, il padre otterrà quello che vuole. Non sono rappresentate nel cast figure di psicologi, counselor filosofici, assistenti spirituali o bioeticisti clinici. Né viene approfondita l’identità bisessuale di Andrè. Prevalgono gli aspetti giuridico-procedurali del suicidio, affrontati da avvocati, notai, ex magistrati. Un solo accenno è riservato agli ostacoli economici (non insormontabili per un’agiata famiglia alto-borghese): 10 mila euro per morire in Svizzera. E come fanno allora i poveri? «Attendono la morte!» replica la figlia.
Tutto è andato bene, magari. Ma lo spettatore si domanda: per chi? E poi: è stata la cosa giusta da fare? Si sono forse attutiti strappi relazionali e contrasti dolorosi, ma si è prestata la forma di cura più autentica? È duro accettare che, nella vecchiaia, siamo costretti a tendere le mani lasciando che un altro ci accudisca, ci vesta e ci porti dove magari non vorremmo (come leggiamo nel Vangelo di Giovanni 21,18). Il film di François Ozon gioca le sue carte migliori nel contrastare l’illusione di onnipotenza individuale e di indipendenza egoistica della cultura contemporanea. Nella splendida sequenza della doccia di Andrè, nudo sulla carrozzina per disabili, lo spettatore sente un’inquietudine vera, che né i divertimenti banali, né la chiacchiera sulla morte, né la fretta di sbarazzarsi della dolorosa invalidità possono soffocare o rimuovere. La questione fondamentale – che la sceneggiatura purtroppo non approfondisce – è di tipo etico. È vera pietà quella di chi interrompe la vita di un paziente ancora lucido, creativo, curioso, innamorato della vita? La vera pietà non è piuttosto la ricerca comune (tra sanitari, familiari, amici e il malato, cui spetta la decisione finale) di modalità più innovative e coraggiose di prossimità, nonostante e attraverso il male che minaccia e ferisce?
Tratto dal romanzo autobiografico di Emmanuèle Bernheim Tout c’est bien passé, il film di Ozon (per il quale la scrittrice aveva composto importanti sceneggiature sul tema del lutto) porta sullo schermo una narrazione stringata e allusiva, evoca fantasie passate e ne mostra l’influsso attuale, esalta le pause di buio e silenzio per consentire ai personaggi e agli spettatori un’interazione riflessiva e un’interpretazione matura del «non detto», degli atti mancati, della segreta vita delle parole. Ozon sa lavorare sui dettagli: la figlia, ad esempio, presa dall’ansia per la notizia del ricovero paterno, dimentica le proprie lenti a contatto e il mondo le si presenta confuso e indistinto, come se le certezze del tempo di salute si fossero eclissate.
La trama di un film, del resto, è come il percorso di una biografia. Si tratta di scegliere il finale migliore (The End, come si legge sugli schermi), quello più degno davanti a tutti e più felice per i personaggi. Non è in gioco anzitutto il bilanciamento delle conseguenze: gioie o dolori, soddisfacimento o frustrazione di preferenze, prolungamento tenace della vita o atteggiamento palliativo. Sono in discussione anzitutto la percezione e la valutazione del significato morale ed estetico di una decisione che è per ciascuno irripetibile: le decisione di promuovere la residua bellezza degli istanti finali.
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