Un discorso sull’odio
Di solito questa rubrica parla di persone, perché raccontare le storie singole è spesso il modo più efficace per restituire la complessità in cui viviamo e mostrare che le sue potenzialità sono alla portata di chiunque. Stavolta non sarà così, perché non conosco nessuno che vorrebbe essere raccontato nella cornice dell’odio. Avete letto bene: ho detto proprio odio. C’è un’espressione ricorrente sui giornali e nel dibattito pubblico di questi anni: è hate speech, cioè discorso d’odio, un modo di dire che sembra applicarsi a qualunque situazione in cui una persona si esprime in modo forte contro qualcosa o qualcuno. La legittimità del discorso d’odio sfiora un principio del nostro sistema giuridico che abbiamo considerato sempre inalienabile: in Italia non esiste il reato d’opinione, neanche se l’opinione è di odio. Mi si dirà che l’apologia di fascismo è un reato di opinione e in teoria è vero, ma il principio della libertà di opinione è talmente più forte che nei tribunali le sentenze di condanna in merito sono praticamente inesistenti, anche in casi come le braccia tese agli anniversari dei caduti di Salò o la vendita di gadget inneggianti al Duce, per citare solo due degli episodi di assoluzione più eclatanti degli ultimi anni.
Se dal lato giudiziario far certificare un discorso di odio come reato è difficilissimo, nel dibattito pubblico succede l’opposto: qualunque espressione di dissenso viene definita molto facilmente discorso di odio e chi pratica dissenso per mestiere – primi tra tutti gli intellettuali e i giornalisti d’opinione – viene fatto rientrare con grande facilità nella categoria degli odiatori di professione. Ma che cosa distingue un discorso di odio da un’espressione di dissenso? In realtà non è affatto difficile: il discorso di odio ha per bersaglio l’esistenza stessa di una persona o di una categoria di persone. Odiare gli ebrei in quanto ebrei è un’opinione di odio, così come lo è odiare le persone omosessuali, quelle di altre etnie, le donne in quanto tali, i praticanti di questa o quella religione e, in generale, chiunque rientri nella categoria del diverso da me. Intendiamoci: non è reato odiare una di queste categorie. Ciascuno è libero di odiare chi gli pare. L’odio è un sentimento umano normale esattamente come tutti gli altri. Diffiderei di chi mi dice «io non ho mai odiato niente», perché il mondo è pieno di situazioni odiose e non avere (o più esattamente non riconoscere) le emozioni corrette per reagire a qualcosa di odioso è indice di aridità emotiva o, peggio, di irresponsabilità verso i propri sentimenti.
Il problema sociale dell’odio comincia dopo, quando chi odia cerca di progettualizzare la sua emozione e diffonderla, al fine di creare delle strutture per trasformarla in azioni lesive verso le categorie odiate. È il passaggio fondamentale per cui quella che senza organizzazione resterebbe una semplice pulsione emotiva diventa un vero e proprio atto politico. Un uomo che odia le donne – diremmo un misogino patologico – è un pericolo potenziale solo per le donne che lo frequentano, ma se quest’uomo aprisse un forum online dove invita a unirsi a lui tutti gli uomini che provano gli stessi sentimenti e insieme stabiliscono azioni lesive contro la categoria odiata, l’evoluzione dell’odio da opinione a reato sarebbe palese. Se qualcuno fondasse un partito che ha come elemento fondante l’odio verso gli omosessuali e come obiettivo politico la creazione di leggi contro la libertà delle persone Lgbt, non sarebbe difficile per nessuno riconoscere il discorso d’odio nei suoi proclami.
Poiché però nessuno è fesso, chi progetta il proprio odio non si esprime mai esplicitamente in termini di odio, ma si propone come difensore di un bene differente, presentato come alternativo. Chi odia gli omosessuali dirà che costituisce un partito per proteggere la famiglia tradizionale, per la quale i diritti degli omosessuali sarebbero un pericolo. Chi prova odio xenofobo dirà che sta strutturando un apparato per difendere i diritti degli italiani, messi in discussione dall’esistenza stessa degli stranieri sul territorio nazionale. Chi vuole fare azioni misogine strutturali non scriverà mai in un programma che odia la libertà di scelta delle donne, ma che intende promuovere e sostenere una certa idea di donna, la sola giusta, guarda caso la sua.
Il paradosso è che criticare queste vere e proprie forme di organizzazione dell’odio viene presentato a sua volta come atto di odio e come tale addirittura portato in tribunale come diffamazione, per cui chi osserva il dibattito pubblico da spettatore comune ha l’impressione che tutti odino tutti. Non è così. La critica politica e l’odio non sono la stessa cosa. Che si tratti di un intellettuale che si indigna davanti a un bambino morto in mare per la volontà politica di far mancare i soccorsi ai migranti o di tre studenti che tirano vernice lavabile alla facciata del Senato per chiedere attenzione al cambiamento climatico, questo è dissenso, non odio. Occorre riacquisire la capacità di riconoscere quel che è odio verso le persone da quello che è dissenso verso le scelte, specialmente quelle di chi governa. L’odio è un terreno di coltura da tenere sotto controllo, mentre il dissenso è un bene democratico, perché si rivolge a parole e azioni messe in essere da chicchessia contro i diritti di qualcun altro, soprattutto se chi li compie ha il potere di far diventare questi atti legge dello Stato.
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