Una storia senza guerra (II^ parte)
Un pessimo affare
Spendere i soldi in armi, piuttosto che in ambiente, sanità, ricerca, scuola, non solo nuoce gravemente al benessere sociale, ma pregiudica l’economia e il futuro. A dimostrarlo, il rapporto «Arming Europe», condotto circa un anno fa da un team multidisciplinare di esperti per Greenpeace. Il rapporto mette a confronto le spese militari e quelle sociali nel corso del decennio 2013-2023, di tre Paesi europei che appartengono anche alla Nato, per verificare quali dei due tipi di spesa abbia un impatto più positivo sull’economia e sull’occupazione.
A illustrarci i dati principali di «Arming Europe» è una delle ricercatrici, Chiara Bonaiuti, consigliera scientifica di Opal (Osservatorio permanente sulle armi leggere), che ha realizzato l’analisi, coordinata da Mario Pianta, docente di Politica Economica (Normale Superiore di Firenze), insieme con Paolo Marzano, statistico (Milano-Bicocca), e Marco Stamegna, economista (Normale Superiore Firenze). La prima evidenza è che se si allunga la coperta delle spese in un comparto, si accorcia inevitabilmente negli altri. «Nel 2013-2023 la spesa militare dei Paesi Nato dell’UE ha raggiunto +46 per cento, e questo in un momento di stagnazione economica» afferma Bonaiuti.
La tendenza al riarmo inizia molto prima della guerra in Ucraina, all’indomani di un vertice Nato in Galles, nel 2014, che indicava ai Paesi dell’Alleanza l’obiettivo di non porre più un freno alle spese militari. E così, nel 2023, ogni cittadino dei Paesi europei della Nato, attraverso le tasse, ha pagato in media per le spese militari 508 euro, contro i 330 del 2013, anche se, ovviamente, c’è chi ha pagato di più e chi di meno. Gli altri capitoli di spesa, quelli legati a un’«economia di pace», sono cresciuti decisamente meno: «Negli stessi dieci anni la spesa pubblica totale (ovvero sanità, scuola, ambiente) dei Paesi UE della Nato – continua la ricercatrice – è cresciuta in termini reali del 20%, molto meno della metà rispetto alla spesa militare. E la situazione oggi è peggiorata».
Uno zoom sull’Italia chiarisce i termini della questione: «In quegli stessi dieci anni, le spese militari sono salite del 26% (del 132% quelle specifiche per gli armamenti), mentre le spese per la sanità appena dell’11%, per l’istruzione del 3% e per la tutela ambientale del 6%. Nello stesso arco di tempo, inoltre, il Pil è cresciuto del 9% (cioè meno dell’1% l’anno): poche risorse, dunque, sbilanciate nettamente verso le spese militari. E il risultato più evidente del disinvestimento nel sociale è la grave crisi del nostro sistema sanitario».
L’altro pregiudizio sfatato dal rapporto è che il comparto militare contribuisca a rilanciare l’economia e l’occupazione. «In Italia, 1.000 milioni di euro spesi in armamenti creano una produzione diretta e indiretta di 741,6 milioni di euro – continua la ricercatrice –, ma se spendiamo la stessa cifra in una delle voci di spesa pubblica, la ricchezza aumenta notevolmente: a 1.900 milioni di euro se si investe nell’ambiente, a 1.254 milioni di euro per investimenti nell’istruzione e a 1.562 milioni per quelli nella sanità». Decisiva la differenza anche nel numero dei posti di lavoro a tempo pieno creati, che sarebbero 3.160 per gli investimenti in armamenti contro i 9.960 posti nella protezione dell’ambiente, i 13.890 nella scuola e i 12.300 nella sanità. Cifre analoghe si riscontrano negli altri Paesi dell’Ue, «a dimostrazione che l’effetto moltiplicatore della ricchezza ce l’ha l’investimento in welfare o in economia civile, non in armamenti. Ciò è dovuto anche al fatto che l’UE importa l’80% degli armamenti (il 60% dagli Stati Uniti), andando ad aumentare profitti e occupazione di aziende extraeuropee» commenta Bonaiuti.
Con la stagnazione economica in Europa, che adesso ha colpito anche la Germania, la più forte economia dell’Unione, «bisognerebbe che i finanziamenti pubblici statali fossero investiti in ricerca per tutta una serie di settori, come l’energia verde, o per colmare il ritardo tecnologico o fronteggiare la crisi climatica. Mantenere questo livello d’investimenti nel comparto militare è insostenibile e controproducente per l’economia e per la vita della maggioranza della popolazione, oltre che pericoloso per la pace». D’altro canto, contrariamente a quanto viene detto, l’investimento militare da solo non aiuta nemmeno la deterrenza: «Si rischia, al contrario, che il riarmo diventi una profezia che si auto-avvera, che alimenta, cioè, a sua volta i conflitti e quindi la domanda di armamenti. Un circolo vizioso rischiosissimo, che deve essere assolutamente interrotto» afferma la ricercatrice.
Eppure la narrazione dominante dice che siamo in un tempo in cui armarsi è assolutamente necessario per la nostra sicurezza: «Non è vero neppure questo – continua Bonaiuti –. Nei fatti è difficilissimo verificare scientificamente quanto la deterrenza funzioni, perché dipende da una serie di variabili e non è detto che si riesca a individuarle tutte». E spiega che Francesco Strazzari, docente di Relazioni internazionali, analizzando diversi studi, ha dimostrato che il conflitto in cui una delle parti viene armata da altri, non solo non si risolve, ma si aggrava, sia in senso orizzontale - coinvolgendo cioè altri Paesi - sia in senso verticale, - innescando un’escalation-. Come accade in Ucraina.
La maggioranza degli italiani (63%) è contraria ad aumentare le spese militari, nonostante la guerra in Ucraina, e solo il 9% sono i favorevoli (lo stesso si riscontra anche in Francia, Gran Bretagna, Grecia, Spagna). Tutto ciò è dovuto anche alla consapevolezza che il warfare comporta tagli al welfare e che la sicurezza passa anche dalla certezza di essere curati bene e di avere accesso a un’istruzione gratuita e di qualità. «Gran parte della popolazione europea è a favore di una politica estera che sia basata più sul dialogo, ma non sempre i rappresentanti politici e istituzionali si fanno portatori di tali richieste», insiste Bonaiuti. I risultati delle elezioni in Francia, Germania e Regno Unito sono anche letti dai ricercatori come protesta dell’elettorato contro decisioni che non lo rappresentano.
Come se ne esce rimane il grande tema: «Innanzitutto serve recuperare razionalità: fino a che punto ha senso spingersi in queste guerre? Poi ristabilire una legalità internazionale, rispettando i trattati e non rispondendo a una violazione con un’altra, come per esempio ridare il via libera alle mine antiuomo. E poi non fermarsi al riarmo, ma attivare e spendere tutte le risorse diplomatiche a disposizione. La sicurezza è una questione multidimensionale, non si può affidare solo agli armamenti, perché per esempio anche solo un fraintendimento con il nemico, per mancanza di comunicazione, può rivelarsi pericolosissimo».
Di fronte a un problema così grave, il rischio è che ognuno di noi si senta impotente. «Al contrario, è proprio ora, di fronte a questa escalation, che bisogna attivarsi – conclude Bonaiuti – trovando nuovi modi di partecipazione ma anche riattivando quelli del passato (partiti, sindacati, associazioni), per far sentire la propria voce e trasformarla collettivamente in percorsi politici e legislativi. Niente è scritto nella pietra nelle relazioni umane». «Dobbiamo ricordarci ? le fa eco la presidente di Banca Etica ?, che le nostre scelte quotidiane contano: chiediamo alle banche o a chi gestisce i nostri fondi pensione dove vengono investiti i nostri soldi, e, se essi vanno a sostenere il mercato delle armi, rivolgiamoci altrove». L’ha detto e scritto anche papa Francesco in tante occasioni: «Solo fermando la corsa agli armamenti, che sottrae risorse da impiegare per combattere la fame e la sete e per garantire cure mediche a chi non ne ha, potremo scongiurare l’auto-distruzione della nostra umanità» (L’Espresso, aprile 2023). Forse, se lo si ascoltasse un po’ di più, davvero riusciremmo a costruire, come augura Lodi, «in tutta la terra una storia, nuova, senza guerra».
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