ll 14 gennaio ricorre la 104ª Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, quest’anno sul tema Accogliere, proteggere, promuovere e integrare i migranti e i rifugiati. Questo agile volume delle edizioni Qiqajon, la casa editrice della comunità di Bose, può aiutare ad aprire una intelligente riflessione sul tema, andando alle radici stesse dell’accogliere e dell’ospitare.L’autore, Francesco Piantoni – laurea in filosofia –, lavora da oltre dieci anni in una cooperativa sociale di Bologna, che opera nel campo delle migrazioni, dei servizi di prossimità e dell’accoglienza. Conosce bene, quindi, la realtà di cui scrive.
Il volume è illuminante sotto molti aspetti, non ultimo perché mette di fronte alle numerose contraddizioni nelle quali siamo quotidianamente immersi, spesso senza neppure esserne consapevoli. Le domande che permeano queste pagine sono domande radicali: prendono avvio dal nostro atteggiamento dinanzi alle masse di migranti che ci chiedono ospitalità e a esso fanno ritorno, non prima però di aver attraversato l’idea stessa di umano in quanto essere-in-relazione.Modello di ospitalità per eccellenza, e figura emblematica del concetto stesso di ospitalità nella Bibbia, è, secondo Piantoni, Abramo, in particolare l’Abramo dell’episodio delle querce di Mamre (Gen 18,1-8). Egli è protagonista di un’ospitalità assoluta e incondizionata rispetto ai tre stranieri che gli si parano innanzi nel momento forse meno opportuno, durante le ore più calde della giornata: «L’intero agire di Abramo è sorretto da una pluralità di verbi che sono i verbi costitutivi dell’accoglienza: il patriarca alza lo sguardo da sé, vede, va incontro, si prostra, supplica». Questi verbi, prosegue Piantoni, «sono anche a fondamento del soggetto ospitale, che rimpiazza con la cura per l’altro le preoccupazioni dell’io, (...) che passa dal guardare se stesso al vedere l’altro».
La saggezza di Abramo, sottolinea ancora l’autore, si legge anche nella sua «cultura della soglia». Perché «è la soglia il luogo del vero incontro: il luogo della vigile attesa e dell’accoglienza sincera. (…) Abramo sceglie un posto che permetta di conservare la distanza dai suoi ospiti e che tuttavia, come un ponte che unisce due sponde diverse soltanto nella misura in cui esse rimangono separate, proprio in questo crea una vera vicinanza. Egli mette in pratica una distanza che fa vicini entrambi». Vale a dire: accoglie senza perdere se stesso, perché altrimenti non avrebbe nulla da donare al proprio ospite (e da ricevere da esso).
Ma «come possiamo fare nostri gli insegnamenti ospitali di Abramo?». In altri termini: com’è possibile sperimentare un’ospitalità incondizionata come quella raccontata dalle nostre tradizioni culturali più autentiche? Riscoprendo innanzitutto la propria responsabilità civile ed etica, ma accettando anche l’idea che «un’ospitalità incondizionata avverrà sotto il segno della grazia». Perché, come insegnano le due grandi tradizioni dell’ospitalità citate nel volume (quella della Grecia antica e quella, appunto, biblica), «non bisogna amare lo straniero» ma essere consapevoli che «il dio si rivela attraverso lo straniero». Lo straniero è presenza di grazia, che «rivela un tratto costitutivo dell’uomo, prima creato e quindi visitato come essere responsabile, secondo logiche di alterità e di gratuità».
A ben pensare, quindi, «è benedetto lo straniero, perché da un lato ci riporta a quell’immagine fondante che rigetta l’identità dell’io, e dall’altro ci impone di alzare lo sguardo dal nostro utile, da modelli economici disumani, per impegnarci a immaginare nuovi modi e forme dello stare insieme». Insomma, rappresenta un’occasione per accrescere la nostra umanità.