Vivi come i morti
C’era una volta un bambino messicano, Miguel, di 12 anni, che amava la musica e sognava di diventare un chitarrista famoso come Ernesto de la Cruz, a cui il suo villaggio, Santa Cecilia, aveva dedicato un monumento, perché le sue splendide canzoni (ad esempio Remember me o El Latido – il battito – de mi Corazón) erano ancora sulla bocca e nel cuore di tutti. Ma la famiglia si opponeva: «Devi fare il calzolaio, come tutti noi facciamo da generazioni; la nostra azienda è apprezzata e ha bisogno di nuovi operai». La passione tuttavia era più forte delle proibizioni. Così Miguel suonava di nascosto, in soffitta, seguito dal fedele Dante, un affettuoso cane «nudo» messicano.
La famiglia di Miguel, numerosa, allegra e affettuosa, era legatissima all’anziana Coco, una bisnonna un po’ inferma e silenziosa, perennemente seduta in poltrona col suo caldo scialle. Lo strano veto nei confronti della musica risaliva proprio ai tempi in cui la madre di Coco fu lasciata sola dal marito chitarrista. Come era potuto accadere? E perché? Lo spettatore del lungometraggio animato Coco (Disney-Pixar, USA 2017) scoprirà questo e altri misteri solo grazie alla curiosità e alla bontà testarde di Miguel, che, rubando una chitarra, si troverà a comunicare con gli spiriti dei defunti e ad attraversare magicamente il ponte di fiori che separa il mondo dei vivi da quello dei morti.
Ma i morti non sono morti? Per niente. I morti sono vivi, anzi vivissimi. Abitano un mondo speculare a quello dei vivi. Sono scheletri che parlano, ballano, vanno ai festival musicali, spettegolano e si emozionano, conservano i primitivi legami di famiglia, chiacchierano con gli amici e ammirano le loro star, come il musicista de la Cruz e la nota pittrice Frida Khalo. Un giorno all’anno, però, nel messicano «Giorno dei morti» (Dia de los Muertos), quando le tombe scintillano di lumini, i defunti possono riattraversare il confine e vedere (restando invisibili) i loro cari sulla Terra. Questo breve trapasso alla vita vera è possibile a una condizione: che i morti siano ricordati e compianti, e che le loro fotografie e i loro ritratti vengano esposti e onorati sull’altare domestico addobbato con cura. Se ciò non avviene, i morti muoiono una seconda volta. Chi cade nell’oblio si dissolve e il suo scheletro si polverizza. Viceversa, capita a volte che un mortale, uomo o animale, superi i posti di controllo e faccia ingresso tra i defunti, i quali lo riconoscono e salutano con piacere, oppure, come capita anche sulla Terra, lo evitano o rimproverano. C’è un giorno di tempo al massimo e poi l’intruso (se nessuno lo benedice) muore e le sue membra perdono muscoli, pelle e tendini, diventando ossa secche, aride e disarticolate. Insomma, capita come nella visione biblica del profeta Ezechiele, al cap. 37 della Bibbia, filmata però al contrario.
Perché gli spettatori, in particolare i bambini e le bambine, hanno salutato con tanta eccitazione questo film e ne hanno decretato il successo? Forse per motivi psicologici, legati al risveglio di fantasie oniriche o di traumi pregressi? Forse per l’apparato tecnologico di cui le belle immagini della Disney-Pixar si sono avvalse? No, per motivi etici! Grazie a questo elementare racconto, è stato aggirato il tabù del decesso ed è stata frantumata la diffusa rimozione culturale della morte. Finalmente lo schermo del cinema ha rappresentato le domande cui gli adulti spesso sfuggono in una società secolarizzata e «scientifica» come la nostra. Una società in cui vengono privatizzate e nascoste le questioni ultime sul senso del vivere e del morire e sul delicato legame tra noi e chi non c’è più. Le pertinenti curiosità dei piccoli sono spesso, purtroppo, congelate nel silenzio o ricevono dagli adulti (impauriti e imbarazzati) risposte ingenue, banali, insoddisfacenti. È brutto per un bambino non essere preso sul serio. È più amara per lui questa fuga morale, questo buco nero del discorso, rispetto a una risposta onesta, a una conversazione leale, a una confessione commossa.
Insomma: si tornerà in vita? Oppure la morte avrà l’ultima parola? L’anima è davvero immortale? Somiglia forse a un corpo incompleto? In che cosa consiste la speranza cristiana che parla addirittura di una risurrezione della carne? Quando verrà l’ultimo giorno? E come attenderlo? Dove si trova il coraggio d’affrontare l’esperienza di una malattia grave in famiglia e il dolore per una separazione avvenuta o imminente? La storia di Miguel dimostra che il silenzio ingannevole si lega spesso a conflitti latenti, a violenze sui deboli, ad antichi soprusi. E, come in un circolo vizioso, la paura di non essere perdonati induce a tessere altre finzioni.
Nel secolo scorso la teologia cristiana si era occupata molto di escatologia (la dottrina delle cose ultime), ma il senso comune e le pratiche di fine vita sono ancora piene zeppe di banalizzazioni grossolane e di addolcimenti linguistici. Come se tutto andasse bene, come se la Bibbia non contenesse Salmi di imprecazione. Come se le lacrime fossero dannose e il grido di dolore fosse fuori luogo. Ma il cinema, l’arte che ridà vita ai sogni e ai fantasmi, riapre gli interrogativi veri, che hanno a che fare col significato della vita, della generazione, dell’affetto familiare, dei riti sacri. Credenti o non credenti, bambini o adulti, tutti siamo legati intimamente a chi non c’è più. Farne memoria non è una nostalgica debolezza, ma propizia l’analisi etica e la costruzione matura del nostro presente. Sono pensieri vivi! Sono i personaggi del nostro mondo interiore. Sono i compagni di viaggio, che suonano ancora, dentro lo spartito delle nostre canzoni.
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