I fiori del bene
Per molti decenni si è scritto e ragionato, anche da parte di autorevoli critici, sulla letteratura italiana prodotta fuori dall’Italia come di una letteratura «altra», comprimendola nel ruolo artefatto di «genere minore, marginale, periferico», quasi che il solo evocarla generasse imbarazzo o diffidenza; una letteratura invece vivace, espressa da autrici e autori non sempre italofoni, anzi spesso poliglotti. Oggi possiamo continuare ancora a considerare come «letteratura italiana» solo ciò che viene scritto e pubblicato entro i confini nazionali dell’Italia oppure che è stato scritto e pubblicato solo da chi ha la carta d’identità o il passaporto italiano, come se l’espressione letteraria tout-court dipendesse da una questione meramente amministrativa? Non sarebbe il caso di rivedere questi canoni vetusti e divisivi, e di declinare nell’alveo di un’unica «letteratura italiana», secondo un nuovo criterio più inclusivo, anche quella letteratura italica, italofona o espressione di autori di discendenza italiana che vivono in tutto il mondo? Questa riflessione non è tutt’affatto peregrina, anzi richiede un approfondimento nel merito e nel metodo della valutazione.
Le avanguardie di questa letteratura italica-italiana si sono già manifestate da tempo, siano esse costituite da romanzieri, poeti, drammaturghi, saggisti o editori illuminati. Talvolta sono passate inosservate, anche a causa dell’ottusa complicità di una certa critica mainstream oppure hanno saputo conquistarsi spazi di interesse tra i lettori e nei mass media grazie a una dirompente forza creativa, capace di scardinare la più cinica e riottosa indifferenza. Tra le più recenti esperienze, va annoverata la coraggiosa antologia dal titolo E c’erano gerani rossi dappertutto (Radici Edizioni - Collana Strade dorate, pagg. 264) curata da Valentina Di Cesare e Michela Valmori. «Spero che i tempi siano finalmente maturi per superare queste assurde barriere – ribadisce subito Di Cesare –. Assurde perché la letteratura è, per antonomasia, il terreno della libertà e dell’assenza di steccati. E questa antologia ne è la prova tangibile». Il volume propone, infatti, una serie di voci femminili della diaspora italiana in Nord America, condensate nei racconti e nei saggi di Rita Ciresi, Joanna Clapps Herman, Kathy Curto, Luisa Del Giudice, Loretta D’Orsogna, Jean Feraca, Annie Rachele Lanzillotto, Nadina LaSpina, Maria Laurino, Marianne Leone, Chiara Montalto-Giannini, Gail Reitano, Jennifer Romanello, Mary Saracino, Rosanna Staffa e Karen Tintori.
Le autrici – tutte d’origine italiana – attraverso il loro patrimonio identitario «ripercorrono le tracce dell’esperienza migratoria familiare e personale, presentando percezioni diverse della propria identità all’interno di entrambe le comunità: quella di arrivo e quella italiana d’origine. Il risultato è un’opera sospesa tra retrospezione e introspezione, caratterizzata da una pluralità di sguardi». L’esito è il recupero di «memorie e sensazioni, parole e silenzi». Una grande prova di onestà e coraggio. «Le scrittrici che hanno accettato di partecipare a questa prima antologia femminile dedicata alla diaspora italiana in Nord America hanno raccontato il proprio passato migratorio, ognuna attraverso la propria “lente d’ingrandimento prediletta” – continua Di Cesare –. I temi trattati sono molteplici. Alcune di loro si sono fatte portavoci di eventi non sempre positivi, tramandati in famiglia e legati all’emigrazione. Altre hanno narrato le proprie identità plurime attraverso testimonianze sicuramente più felici. Un nutrito numero di autrici proviene da New York City o dall’area circostante. Alcune sono dell’area di Boston, altre di Detroit. In numero minore si trovano sulla West Coast, quindi in California. C’è chi vive in Florida, chi nel New Mexico o nel Wisconsin. Alcune di loro sono nate altrove e, successivamente, si sono trasferite».
Ogni storia raccontata in questa preziosa antologia è personale e, nel contempo, universale poiché «gli esiti e i destini che si diramano a seguito di un’esperienza migratoria sono infiniti e tutti differenti, benché con importanti tratti in comune». Quali sono, allora, questi tratti distintivi, i temi e i motivi che la diaspora ha ispirato in queste autrici? «Il fil rouge è certamente la ricerca della propria identità, che le scrittrici hanno attuato più o meno consapevolmente sin da bambine, ben prima di diventare autrici, complice sicuramente una spiccata sensibilità – sottolinea Di Cesare –. Per molte di loro, tale ricerca è stata il “rovello” del proprio percorso letterario, per altre è stata solo una parentesi».
L’identità ritrovata
Nelle vicende narrate in questa antologia si ravvisano gli echi della nostalgia per le proprie radici e il bisogno di riscoprire la propria identità. In fondo, le italo-discendenti non sono solo «italiane». In esse convive anche un ulteriore livello, che è quello dell’appartenenza a un’identità locale-regionale, con il rispettivo dialetto, che rappresenta una matrice ancora più profonda della koinè italica. E, in effetti, «sembra che tutte le autrici abbiano avvertito, in un preciso momento della loro vita, il desiderio di capire il loro passato familiare, di cercare quella parte di sé che mancava. Sublimare questa ricerca attraverso la scrittura è stato, per molte di loro, una forma di salvezza».
Le donne italo-discendenti in Nord America sono oggi ampiamente emancipate. Spesso appartengono alla upper class. Sono scienziate, donne impegnate in politica, libere professioniste, docenti universitarie, artiste e, appunto, scrittrici. Viene dunque naturale chiedersi come vivano e trasmettano il retaggio della loro identità, anche italiana. «Credo che la condizione delle donne italo-discendenti sia molto vicina alla nostra – osserva Di Cesare –. Io e mia sorella siamo le prime donne laureate in una famiglia abbastanza benestante per i tempi passati, perché non contadina, ma da secoli dedita al commercio, in cui alle donne non era consentito studiare o pensare ad altro che non fosse la cura della famiglia. Finalmente la modernità sta riconsegnando alle donne le occasioni perdute e le ingiustizie subite nel corso dei secoli».
Un’altra questione sollevata dall’antologia E c’erano gerani rossi dappertutto è il rapporto di queste donne scrittrici con la lingua inglese e con quella italiana. Due identità linguistiche che rappresentano mondi, sensibilità, culture, valori con sfumature diverse. «Il rapporto che ogni autrice ha mostrato di avere con la lingua italiana ha una cifra differente a seconda dell’esperienza familiare e delle scelte di vita, degli accadimenti fortuiti, degli interessi – sostiene Di Cesare –. Uno dei racconti presenti nell’antologia si intitola Non parlo italiano di Mary Saracino, che riporta la testimonianza di una famiglia che ha deliberatamente smesso di parlare l’italiano per il “bene dei figli”; una scelta che molti emigranti fecero, insieme all’inglesizzazione del cognome, per tentare di favorire una maggiore integrazione, dato che erano discriminati in molti campi. In un altro racconto, quello di Maria Laurino, intitolato Parole, lo sguardo dell’autrice si concentra sull’uso familiare del dialetto, sul mancato uso dell’italiano e quindi sulla propria conoscenza del solo idioma dialettale dei genitori, a loro volta fermo al momento dell’emigrazione e non più usato nemmeno nei loro luoghi di provenienza».
I migranti di ieri e di oggi
Alcuni dati indicano in 80 milioni gli italo-discendenti nel mondo. Una quota rilevante di questi vivono in Nord America, e costituiscono anche un giacimento culturale di cui l’Italia ignora o sottovaluta l’esistenza. C’è l’urgenza di individuare quei soggetti in grado di educare alla comprensione di un fenomeno, quello migratorio italiano, che ha svuotato di persone il nostro Paese, ma ne ha indirettamente arricchito anche la nostra lingua, identità e cultura dandole, come gli scritti di questa antologia dimostrano, una dimensione e una visione internazionali con decenni d’anticipo sul fenomeno della globalizzazione.
Secondo Di Cesare, tale compito educativo «tocca a tutti noi: in casa, nelle famiglie italiane, c’è almeno uno zio o un cugino emigrato altrove. È importante raccontare, tenere viva la memoria, interessarsi al proprio passato, renderlo tangibile, aperto a tutti. Come insegnante, tratto il tema approfonditamente con tutte le mie classi, attualizzandolo anche tramite riflessioni sull’immigrazione odierna che riguarda il nostro Paese nonché sull’emigrazione italiana contemporanea: la cosiddetta “fuga dei cervelli”». Se guardiamo al passato dell’Italia, «la storia della nostra emigrazione rappresenta ancora un tabù – conclude Di Cesare –. A mio parere, le istituzioni e la società civile non hanno elaborato a dovere il fenomeno, nonostante sia iniziato nella seconda metà dell’Ottocento. Non se ne parla mai in maniera organica e complessa né se ne discute per comprendere le migrazioni di oggi che ci vedono come Paese d’accoglienza».
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!