I killer silenziosi

Klebsiella, Acinetobacter, Proteus, Pseudomonas sono alcuni dei batteri più insidiosi presenti nel nostro organismo e anche in ambienti che dovrebbero essere sterili, come ospedali e case di riposo. Che rischi corriamo, e quali diritti ci tutelano?
11 Novembre 2024 | di

«Nel 2050 potrebbero esserci 10 milioni di decessi nel mondo per infezioni provocate da batteri antibiotico-resistenti. Questa potrebbe diventare la prima causa di morte». È lapidario Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell’Ospedale San Martino di Genova e professore ordinario di Malattie infettive all’Università del capoluogo ligure. Anche il nostro Paese ha poco da stare allegro. Secondo l’Ecdc (Centro europeo per il controllo delle malattie) ogni anno si stimano, infatti, 11 mila decessi in Italia e 36 mila nell’Unione europea a causa di complicanze dovute all’antibiotico-resistenza, ovvero a quelle infezioni che insorgono soprattutto in persone fragili, anziane, immunodepresse o sottoposte a un trapianto, nelle quali gli antibiotici non sono più efficaci contro alcuni ceppi di batteri. Uno studio del 2022 sulla mortalità globale legata a 33 specie batteriche ha stimato che, prima della pandemia del covid, «nel 2019 si sono verificati 13,7 milioni di decessi per infezioni a livello globale, dei quali 7,7 milioni associati a specie batteriche sia sensibili che resistenti agli antibiotici. Più della metà dei decessi è stata causata da cinque principali batteri patogeni, quali Staphylococcus aureus, Escherichia coli, Streptococcus pneumoniae, Klebsiella p. o pneumoniae e Pseudomonas aeruginosa» (fonte: Istituto superiore di sanità). 

Come se questo già non bastasse, l’Italia ha un altro problema: i protocolli sanitari di prevenzione sono applicati in modo non sempre efficiente e uniforme, complici anche i tagli dei fondi alla sanità negli ultimi dieci anni. Inoltre manca una sostanziale formazione di medici, pazienti e familiari sui temi dell’uso – e dell’abuso – di antibiotici, e della prevenzione della diffusione di batteri resistenti. «La quantità di antibiotici che circola in Italia corrisponde mediamente a quasi tre o quattro volte quella consumata nel Nord Europa, per esempio in Olanda, Belgio e in tutti i Paesi scandinavi – sottolinea Bassetti –. C’è la cattiva abitudine di usare gli antibiotici anche quando non servono. Su questo c’è pochissima sensibilità anche nella classe medica. Esiste tanta auto-prescrizione da parte dei pazienti che in Italia finiscono spesso per ascoltare più il consiglio del cugino o dell’amico che non del medico, oppure assumono antibiotici avanzati o finiti in un cassetto dalla volta precedente».

Uno dei batteri che ha sviluppato contro gli antibiotici ceppi resistenti e potenzialmente letali è la Klebsiella p. o pneumoniae. Tradizionalmente presente nell’intestino, ha imparato a diffondersi anche in altri organi (da qui pneumoniae cioè del polmone). Se i ceppi di questo batterio, resistenti agli antibiotici, colonizzano malauguratamente l’organismo di una persona fragile o che ha un sistema immunitario compromesso da una patologia oncologica o degenerativa, spesso per quella persona non c’è scampo. I luoghi dove più facilmente si incontra o si contrae la Klebsiella p. o altri batteri resistenti, se non se ne è già portatori, sono gli ospedali, specialmente i reparti di lungodegenza, di terapia intensiva, di oncologia e oncologia ematica, ma anche le case di cura e le Rsa (Residenze per anziani) laddove, in particolare, ci sia promiscuità tra pazienti fragili e altri che magari provengono dal ricovero in strutture sanitarie senza essere stati sottoposti preventivamente a uno screening.

Ma alcuni ceppi sono anche d’importazione. Già nel 2021 il nostro ministero della Salute allertò tutti i soggetti istituzionali (assessorati alla sanità, federazioni di medici, forze armate, Croce rossa, ecc.) sul fatto che l’Ecdc aveva segnalato «la presenza, a partire dal marzo 2019, del ceppo ipervirulento di Klebsiella p. (hvKp) ST23 in alcuni Paesi dell’Unione europea», resistente anche ai carbapenemi ovvero all’ultima frontiera degli antibiotici. Nel 2023, dieci Paesi del mondo hanno segnalato 143 casi di Klebsiella p. ipervirulenta. «Rapporti recenti indicano un aumento della sua distribuzione a livello geografico, della circolazione in strutture sanitarie e della sua multiresistenza – prosegue il documento del ministero della Salute –. Le prime segnalazioni provenivano da Taiwan e dal Sud-est asiatico. Questo ceppo è considerato la principale causa di ascesso epatico a Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan». Ma la vera sorpresa è la Cina: «In dieci città, una media del 37,8 % di Klebsiella p. rilevata, che causa infezioni associate all’assistenza sanitaria, è risultata del tipo più virulento». E sapete in quale di queste città cinesi tale percentuale ha registrato il picco più alto, schizzando fino al 73,9 % (dato del 2016), un tasso che non ha eguali altrove? A Wuhan, da dove, a fine 2019, si è diffuso nel mondo il virus della Sars-CoV-2 ovvero il covid, e dove ha sede il chiacchieratissimo Istituto di virologia dell’Accademia cinese delle scienze che, tra molte altre cose – anche non note – si occupa di studiare virus e malattie infettive emergenti. Che sia solo una coincidenza?

Ospedali e Rsa a rischio

Il professor Giovanni Rezza è docente di Igiene all’Università Vita e Salute San Raffaele di Milano. Fino al maggio del 2020 è stato direttore del Dipartimento di Malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità. Successivamente, e fino al 2023, nel periodo più acuto della pandemia del covid, è stato direttore generale della Prevenzione sanitaria al ministero della Salute. «Per chi proviene dall’estero – osserva Rezza – sui batteri multiresistenti non si fanno screening. Per esempio, la Klebsiella New Delhi ha fatto il giro del mondo. E non c’è solo la Klebsiella, ma anche altri germi gram-negativi come, ad esempio, l’Acinetobacter». La verità è che dovrebbero controllare anche noi italiani. «Nell’Unione europea siamo il Paese che sta messo peggio – rammenta Bassetti –. In Italia abbiamo una prevalenza di Klebsiella resistente ai carbapenemi che si colloca tra il 25 e il 50 % della popolazione». E le mutazioni non si fermano. «Un altro ceppo che faceva parte della Klebsiella p., e che adesso ha una sua caratterizzazione, si chiama Oxytoca e ha una certa patogenicità», aggiunge Fabrizio Pregliasco, professore associato di Igiene generale e applicata all’Università Statale di Milano, e direttore sanitario dell’IRCCS Ospedale Galeazzi-Sant’Ambrogio di Milano. Con Paola Arosio ha scritto il libro I superbatteri. Una minaccia da combattere (Raffaello Cortina Editore). Insomma, c’è una pletora di microrganismi che vivono dentro di noi, soprattutto nell’intestino. «A fare compagnia alla Klebsiella – ricorda Bassetti – ci sono anche l’Escherichia coli, il Proteus e la Morganella». 

In Italia si è preso coscienza di questo problema solo nel 2017. «Così è nato il primo Pncar (Piano nazionale di contrasto all’antibiotico-resistenza) – rileva Rezza –, ma solo nel 2021-2022 è stato finanziato con 40 milioni di euro l’anno, destinati alle Regioni, in modo particolare per la formazione degli operatori. È chiaro che ogni ospedale dovrebbe avere un Cio (Comitato infezioni ospedaliere). Dovrebbe esserci la cosiddetta antimicrobial stewardship, vale a dire che la terapia antibiotica dovrebbe essere supervisionata da personale esperto». Un approccio che vale anche per i medici di base. «E poi bisognerebbe rispettare tutte le procedure: per esempio lavarsi sempre le mani quando si passa da un paziente a un altro».

Il problema, purtroppo, sono gli organici. «Se, come avviene spesso in terapia intensiva – continua Rezza –, gli operatori sanitari sono pochi rispetto ai pazienti, allora di fronte a situazioni di emergenza, un infermiere deve correre da un paziente all’altro, e non può sempre lavarsi accuratamente le mani». Per questo motivo, gli ospedali restano i luoghi più a rischio per le cosiddette Ica (Infezioni correlate all’assistenza) nelle quali rientrano, ad esempio, le infezioni del sangue, ossee e articolari; le infezioni del sistema cardiovascolare, del sistema nervoso centrale, di occhi, orecchie, naso, gola e bocca; le infezioni gastrointestinali; le polmoniti, le infezioni del sistema riproduttivo, della pelle, dei tessuti molli, del tratto urinario. Patologie che incidono anche sul Servizio sanitario nazionale con costi diretti, su base annua, stimati in oltre 2,5 miliardi di euro e con 2,7 milioni di posti letto occupati. Anche per questo, la Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali) ha lanciato due iniziative: «Insieme» per arrivare a rendere omogenee, a livello nazionale, le politiche e gli interventi di controllo delle infezioni ospedaliere, e la piattaforma «Resistimit» per creare un network di infettivologi e centri pilota in Italia, impegnati nella lotta contro l’antibiotico-resistenza.

Quando si sviluppa un’infezione, una volta esaurita l’arma dei carbapenemi, «si è fatto ricorso addirittura alla colistina – rammenta Rezza –: un farmaco desueto, non utilizzato da tempo, che poi è diventato un salvavita». La ricerca di nuovi antibiotici è la strategia più efficace, ma purtroppo langue, soprattutto in Italia, anche perché gli antibiotici non sono così redditizi come altri farmaci, per esempio gli anti-tumorali. Inoltre, è sufficiente che un ceppo di batteri sviluppi resistenza – e di occasioni gliene diamo continuamente con l’uso non corretto o l’abuso di antibiotici o con il loro impiego negli allevamenti intensivi – per compromettere l’efficacia di farmaci spesso frutto di anni di sperimentazioni. Oggi la ricerca si sta orientando verso l’impiego dell’Intelligenza artificiale per individuare nuovi principi attivi che consentano di contrastare più rapidamente l’antibiotico-resistenza.

Igiene e prevenzione

Oltre a una nuova cultura dell’uso dei farmaci, il problema dell’antibiotico-resistenza va affrontato anche applicando misure di infection control quando si è all’interno di determinate strutture sanitarie; misure che possono limitare la diffusione dei batteri, per esempio «stimolando il lavaggio delle mani degli operatori sanitari – suggerisce il professor Bassetti – e poi evitando il contatto quando c’è un paziente che ha un ceppo di batteri resistenti, cercando di separarlo da pazienti che non li hanno, e soprattutto adottando “misure di barriera” come guanti, camici estesi e altri presidi per evitare il passaggio di quel batterio da un paziente a un altro». In una struttura sanitaria occorre evitare che si creino dei cluster, cioè che altre persone possano essere contagiate dallo stesso ceppo batterico. A volte, batteri come la Klebsiella p. sono resistenti perfino ai comuni disinfettanti ambientali. «Il mondo è dei microbi, e sono dappertutto – ricorda Bassetti –. Non è disinfettando le superfici plastiche oppure i pavimenti che risolviamo il problema, ma disinfettando i vettori attraverso i quali noi portiamo questi microrganismi, cioè fondamentalmente le mani».

L’igiene riguarda tutti noi, specialmente quando ci accostiamo a persone fragili. E dobbiamo anche riconsiderare certe abitudini come quella di recarsi in ospedale o in una Rsa per trovare un congiunto in stato di fragilità senza essersi prima disinfettati bene le mani, in particolare quando, magari solo poco prima, abbiamo usato le stesse mani per inserire le monetine al parcheggio o per prelevare una bevanda da un distributore automatico di caffè o bibite, o per toccare le maniglie delle porte d’ingresso di un reparto. Non solo. Un recente studio presentato al Congresso della Escmid (European society of clinical microbiology and infectious diseases) ha dimostrato il passaggio di superbatteri anche da cani e gatti domestici ai loro proprietari. In tutte queste circostanze, ceppi di batteri resistenti potrebbero trovare la porta spalancata per colonizzare l’organismo di una persona fragile. Con il covid si era diffusa l’abitudine delle precauzioni. Ma l’attenuazione della pandemia ha fatto dimenticare che questo pianeta è dominato, prima di tutto, da virus e batteri, non di rado poco amichevoli.

I diritti dei malati

L’avvocato Gabriele Chiarini, presidente della Fondazione Sanità Responsabile, ricorda che: «in Italia, così come in molti altri Paesi, sono stati adottati strumenti finalizzati a definire strategie di contrasto alle infezioni correlate all’assistenza, a partire dalla Circolare ministeriale 52/1985, da cui sono nati i Cio (Comitati infezioni ospedaliere) che devono essere istituiti in ogni presidio sanitario. E poi la Circolare 8/1988 ha definito criteri standardizzati per la diagnosi e la sorveglianza delle infezioni ospedaliere, promuovendo la cosiddetta sorveglianza attiva». Il ministero della Salute ha emanato documenti specifici in materia. «Non vanno sottovalutati nemmeno il Piano nazionale di prevenzione e il Pncar (Piano nazionale di contrasto all’antibiotico-resistenza), e i Piani che devono essere adottati a livello aziendale, pubblico o privato (Asl, ospedali, Aziende ospedaliere universitarie, Rsa, ecc.), come il Paica (Piano annuale delle infezioni correlate all’assistenza), utile a integrare il Parm (Piano annuale di risk management)».

Le norme ci sono, ma non bastano. Occorre che qualcuno si assuma la responsabilità verso i pazienti-utenti e i loro familiari. «Su questo – precisa Chiarini – la Corte di Cassazione ha delineato una chiara distribuzione degli oneri: il dirigente apicale (direttore generale) è responsabile della definizione delle regole cautelari da adottare, ha il potere e il dovere di sorvegliare e verificare l’adozione di tali regole partecipando a riunioni periodiche e conducendo visite regolari, in collaborazione con il Comitato infezioni ospedaliere; il direttore sanitario deve attuare le regole stabilite, organizzare gli aspetti igienico-sanitari e vigilare sull’attuazione delle indicazioni fornite, ed è responsabile per la predisposizione dei protocolli di sterilizzazione e di sanificazione ambientale, di gestione delle cartelle cliniche e di vigilanza sui consensi informati; il dirigente di struttura complessa (il primario di una volta, ndr) deve dare concreta esecuzio­ne ai protocolli e alle linee guida, collaborando con specialisti come microbiologi, infettivologi, epidemiologi e igienisti, ed è responsabile per l’omessa assunzione di informazioni precise sulle iniziative di altri medici o per non aver segnalato eventuali carenze ai responsabili».

Oggi c’è un orientamento specifico della giurisprudenza in materia di responsabilità per le infezioni correlate all’assistenza. L’avvocato Chiarini aggiunge che «secondo la Cassazione se, da una parte, il paziente deve dimostrare il nesso causale tra la degenza ospedaliera e il contagio infettivo, provando che è un’infezione contratta in ambito ospedaliero, dall’altra parte la struttura sanitaria deve provare di aver adottato tutte le misure previste per prevenire il contagio, e che l’infezione fosse imprevedibile o inevitabile. Dunque, la struttura sanitaria deve dimostrare di aver implementato i protocolli di disinfezione, sterilizzazione, gestione dei rifiuti, controllo dell’aria, sorveglianza microbiologica, limitazione degli accessi ai visitatori; perfino il controllo delle malattie del personale. L’assenza di tali misure, o l’incapacità di dimostrare la loro concreta applicazione, fa presumere la responsabilità della struttura sanitaria, a meno che questa non dimostri di aver adottato tutte le precauzioni necessarie per evitare il contagio e di aver agito con la massima diligenza possibile».

Quando sorge il sospetto che un congiunto sia deceduto a causa di un’infezione contratta in ospedale oppure in una Rsa, occorre agire tempestivamente. Il suggerimento dell’avvocato Chiarini è che, in questi casi, «i familiari possono considerare l’opportunità di presentare subito una denuncia alla Procura della Repubblica, la quale disporrà un’autopsia per accertare la causa della morte e valutare se vi sia un nesso causale tra l’infezione e il decesso. Questa procedura è importante per acquisire elementi probatori utili non tanto in un eventuale giudizio penale, dal momento che la responsabilità per l’Ica (Infezione correlata all’assistenza) è una responsabilità di sistema (dove non è possibile individuare il singolo “responsabile”), quanto piuttosto in un giudizio civile in cui le maglie per il riconoscimento di responsabilità sono più larghe e, dunque, la strada risarcitoria è percorribile più agevolmente». 

Tuttavia va ribadito che «il nostro ordinamento non permette di accettare che il danno resti a carico del solo danneggiato: il principio di solidarietà, di cui all’articolo 2 della nostra Costituzione, impone alla collettività di farsi carico delle conseguenze di un pregiudizio ingiusto. Numerose sentenze hanno riconosciuto risarcimenti, anche molto significativi, per casi di malasanità legati alle Ica. Il nesso causale resta un presupposto imprescindibile dell’impegno di responsabilità, e si basa su tre criteri: criterio temporale, dato dal tempo trascorso tra il ricovero e l’insorgenza dell’infezione; criterio topografico, dato, per esempio, dall’insorgenza dell’infezione nel sito chirurgico, specie se in assenza di patologie pre-esistenti o cause sopravvenute; criterio clinico che si declina nella verifica delle misure preventive adottate. Inoltre, il concorso di una causa umana (quindi l’Ica) con una naturale (incluse eventuali co-morbilità del paziente), non priva di efficacia causale la prima, né fraziona il nesso causale. Il concorso di una causa umana con una naturale non esime la struttura sanitaria o la Rsa dalle proprie responsabilità. Queste strutture – conclude Chiarini – non possono invocare la fragilità del danneggiato come elemento attenuante né tantomeno scriminante».

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Data di aggiornamento: 11 Novembre 2024

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