08 Novembre 2024

Il mio attimo fuggente

Il regista australiano Peter Weir, premio Oscar alla carriera, ha compiuto 80 anni. Aneddoti e curiosità di una vita dedicata al cinema indagando sui lati oscuri della natura umana e sul mistero che si cela dietro le cose.
Il mio attimo fuggente

© Marco Bertorello / AFP via Getty Images

Importante regista e sceneggiatore di pellicole che sono pietre miliari, e che tutti abbiamo visto almeno una volta al cinema, in televisione o a scuola (L’attimo fuggente, Witness - Il testimone, The Truman Show), Peter Lindsay Weir oggi si gode la pensione, chiamato dai festival di tutto il mondo per parlare del suo cinema e per ritirare riconoscimenti. Il direttore della Mostra del Cinema di Venezia, Alberto Barbera, accogliendolo lo scorso settembre nella città lagunare con Ethan Hawke – l’attore lanciato proprio da L’attimo fuggente – per consegnargli il Leone d’Oro alla carriera, lo ha elogiato ricordando la sua ammirazione sconfinata per il regista australiano, di cui è riconosciuta la capacità di saper raccontare storie in apparenza «normali», ma necessarie a svelare i lati oscuri della natura umana e il mistero che si cela dietro le cose. 

Weir è venuto al mondo prima delle trasmissioni televisive, ma con la tv è cresciuto negli anni Sessanta, formando al cinema, da ragazzo, la sua poetica visiva con i western, molto popolari a metà secolo. A 20 anni, lasciata a Sydney l’Università, fece il primo viaggio in Europa. All’epoca lavorava nel settore immobiliare, e per venire nel vecchio continente, nel modo più economico possibile, scelse il transatlantico. Con i suoi amici scrisse, durante la lunga navigazione, una commedia che rappresentarono sul piccolo ponte superiore della nave utilizzando anche una telecamera. Il capitano, entusiasta per la brillante iniziativa, apprezzò lo show comico assieme ai circa 700 passeggeri in quel momento in navigazione nel mezzo dell’Oceano Indiano. 

Sceso a terra, l’illuminazione: il giovane Weir pensò che il campo dell’intrattenimento potesse fare al caso suo: recitazione, sceneggiature, regie o forse qualcos’altro per gli studi televisivi. Nella sua carriera ricoprì tutte queste vocazioni. Autore negli anni Settanta di documentari per la Commonwealth Film Unit, che lo hanno reso famoso in patria, trattando argomenti a lui consoni sulle libertà umane, ha iniziato a fare cinema negli anni d’oro della New Wave australiana; si è poi dedicato ai lungometraggi di fiction realizzando ogni volta un’opera diversa, per molti anni lavorando a Hollywood con grandi interpreti americani, come Robin Williams, che ha aiutato a rilanciare sotto altre vesti artistiche. Il primo mediometraggio, Homesdale, porta la data del 1971, nel bel mezzo della nuova tendenza australiana.

Msa. Com’è stata quell’esperienza a basso costo?

Weir. Il primo film è stato difficile, con sole quattro settimane per girarlo, poche scene al giorno. Sono passato a lavorare da 16 mm a 35 mm. Avevo scarsa conoscenza ed esperienza. Sono felice di averlo portato a termine.

Poi lei ha girato Le macchine che distrussero Parigi, con un personaggio un po’ «perso», sul tema del diventare padre. Anche negli anni successivi lei ha approfondito il rapporto tra figura paterna e prole. Cosa la affascina di questa relazione?

Sono stato guidato dalla guerra in Vietnam e dal contesto politico, dal motto «il fine giustifica i mezzi». Io ho due figli, l’argomento per me è interessante.

Il suo terzo film è diventato un cult, sul trend del filone australiano: Picnic ad Hanging Rock, adattamento letterario del romanzo di Joan Lindsay. Nel suo percorso ha scritto quasi tutti i suoi film, a volte ha firmato altre sceneggiature. Cosa guida la sua scelta a favore di una storia o di una narrazione specifica?

Il mistero o i temi che non vengono da me. Soprattutto con i film fatti negli Stati Uniti. Alcuni mi sono stati proposti. In Picnic ad Hanging Rock ho diviso il film in scene A, che dovevano essere fatte alla perfezione, e scene B, veloci e di contorno. Per le scene A siamo tornati tutti i giorni, un’ora al giorno per trovare la luce giusta.

Il successo è arrivato con L’attimo fuggente e The Truman Show. È stato difficile continuare sull’onda della popolarità?

Fare film è un processo misterioso. La tecnica si può imparare, così come il fatto di usare il budget per il film, ma l’arte mantiene degli aspetti misteriosi. Mi interessa il cuore della storia dove si può trovare l’ispirazione.

Come nascono le sue sceneggiature?

Amo scrivere storie di persone che non ci sono più. Però è necessario che una storia diventi parte di me. Ho bisogno di più dettagli per accendere la mia sensibilità. Il regista compone la musica, mentre le immagini sono le note. Questa è la parte più importante.

L’ultima onda è un film molto contemporaneo per la sua tematica ambientale.

Un incontro, una sfida tra le culture, quando ci siamo avvicinati agli aborigeni che vivono a Sydney.

Il fil rouge dei suoi film è rappresentato dai personaggi che trovano qualcosa di diverso e che comprendono qualcosa su se stessi, intraprendendo un viaggio della conoscenza.

Il primo viaggio io l’ho fatto a 20 anni. In quelle lunghe settimane di navigazione ho maturato il senso di distanza dall’Europa. Il mio bisnonno era scozzese. Un’esperienza in mare, 24 ore su 24, per sette settimane. Stavo lavorando su questa terra straniera, su questa distanza. Da giovane, l’Europa era per me una cosa rappresentativa. Ho fatto le esperienze che erano soliti fare gli studenti: ho visto Roma e la parte settentrionale dell’Italia. Ho incontrato un uomo, lui non parlava inglese, era un partigiano e ho imparato Bella ciao.

Chi sono i suoi maestri?

Sono un regista vicino agli americani degli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Non ho studiato a livello cinematografico, ma ho proceduto col mestiere in modo costante.

Dopo L’ultima onda è uscito Gli anni spezzati, un film di guerra e di avventura. Non c’è un unico modo di realizzare un film sulla vita e sulla morte.

Gallipoli (titolo originale del film, ndr) è uscito nel 1981: è la storia dei soldati australiani che hanno servito nell’Esercito britannico nella Prima guerra mondiale. Mel Gibson ci offre un importante messaggio nel salvare l’amico. In questo film l’alternanza tra immagini e suono è strutturata bene, il ritmo è potente. Racconto un episodio legato a questo film. Gli australiani hanno perso a Gallipoli, in Turchia. Io lì ho trovato delle custodie, dei pezzi di metallo. Erano i morti che ci stavano guardando? «No, è impossibile! – ho gridato – Mostratemi le vostre cose!». E così ho trovato uno stivale raggrinzito dal sole, una ciotola, delle posate e altre cose appartenute ai soldati. Ecco come riempire di emozioni un film, come fare di un film un memoriale di guerra.

Ci parli di Un anno vissuto pericolosamente, del 1983.

Sembra davvero un classico, nel momento in cui si lascia il mondo alle nostre spalle. Si vede Bali come località turistica, io che adoro l’Indonesia. Sono stato anche a Jakarta. La prima volta in Asia si è colpiti dallo stesso stupore dei bambini. Volevo girare una storia d’amore con Mel Gibson e Sigourney Weaver, che veniva dal film Alien. Ho provato la scena del bacio, ma ne è uscito un bacio orrendo. «Mel, cosa sta succedendo?», gli chiedo. Così ricordai loro i baci più belli della storia del cinema. Poi provammo a fare la scena di spalle e non di profilo, ma di nuovo non funzionava. Era Sigourney il problema: «Questo non è il modo di baciare» e le feci baciare la mia mano. Ci fu una grande risata, e si creò un clima più rilassato per girare la scena.

Witness - Il testimone è una produzione hollywoodiana. È un film che le è stato proposto?

Ero con Harrison Ford alla Paramount, ho sorriso e ho detto: «È un attore incredibile. Ma posso raccontare la storia del film?». I produttori mi risposero: «Vuoi raccontare tu a noi la storia che ti stiamo offrendo? Hai dieci minuti». Ho iniziato a farlo, descrivendo i campi di grano, il bambino che se ne va... Ho fatto così anche per L’attimo fuggente.

In Mosquito Coast la musica di Maurice Jarre ha un ruolo importante. 

Ci sono registi che esagerano, invece la musica deve essere perfetta per elevare il livello emotivo della scena. Sono stato a casa di Stanley Kubrick a Londra, e gli ho chiesto se gli sarebbe piaciuto scrivere lui la musica. E Kubrick mi ha detto che la musica è l’aspetto più importante di un film.

In tutta la sua carriera, lei è sempre riuscito a indovinare i film. In Master & Commander - Sfida ai confini del mare, del 2003, è ammirabile il montaggio. Gli ultimi suoi due film hanno una trama storica. Come gestisce il rapporto con il montaggio? 

Mi avvalgo di un montatore bravo, che taglia. Mi prendo tre settimane, e poi guardo il montato. Da qui parte il mio lavoro. Guardo il film a casa, in silenzio. Ho ringraziato quando è arrivato il videoregistratore domestico. Faccio un check di sole immagini che mi aiuta a cercare le ripetizioni. 

Ha anche trattato temi attuali, i conflitti dell’età moderna.

Le cose cambiano sempre. Spero di cambiare la vita delle persone. Quando vengo ispirato, il sentimento diventa «divino».

Come sceglie gli attori?

Mi devono mostrare il loro potenziale. Spesso è stata una scelta cosciente di questi attori, anche perché mi dimostrassero qualcosa oltre le aspettative. Non si conoscono mai gli attori così bene, ed è vero che a Hollywood c’erano anche attori con cui non volevo lavorare. A Harrison Ford volevo ridare quell’aura scomparsa. «Non è il mio ego o il tuo. Sono un leader, ma non farei mai qualcosa in cui tu non ti trovassi a tuo agio», gli dissi io. Volevo capire come creare qualcosa assieme. Invece per Witness - Il testimone ero spettatore di un balletto, ho visto Alexander Godunov e, come se fossi stato un detective, io l’ho scelto. 

E The Truman Show? Un antesignano del Grande fratello televisivo?

Il protagonista, Jim Carrey, l’ho incontrato a casa sua. Era nervoso. Si è inventato questa cosa: immaginare la telecamera come un filtro. È andato in bagno e ha iniziato a fare delle smorfie allo specchio, ma io gli ho detto di fare piccole cose, ad esempio sollevare un sopracciglio senza perdere il suo fascino. Poi ci siamo trovati sul piano della fiducia.

Come si diventa registi?

Il segreto è scrivere. Abbiamo tutti delle telecamere, ma un pezzo di carta è più utile. Ho tenuto una lezione in cui erano richiesti degli esercizi con la telecamera. Ho domandato ai corsisti di spegnere tutto e ho chiesto loro: «Cosa avete visto stamattina? Magari una persona divertente». Questa è una palestra per esercitare l’immaginazione: bisogna osservare perché è fondamentale attivare l’immaginazione ed è meglio non guardare troppe immagini.

Qual è stato il suo film più importante?

Il primo è stato il più difficile. Il momento migliore credo in Fearless - Senza paura, quando l’aereo sta per schiantarsi, con gli attori sdraiati, la testa appoggiata a terra. È stata una scena meravigliosa.

Quali sono gli ingredienti per fare un buon film?

Bisogna liberarsi della parte razionale, per esempio bevendo un bicchiere di vino o ascoltando della musica. Viceversa si riesce a pensare solo in maniera razionale. Ascolto musica strumentale, orchestrale, sinfonica, tribale, ma senza testo o con il testo, ma non in inglese. Non guardo la tv e non leggo i giornali.

Lei ha da poco «appeso la cinepresa al chiodo». Ci ripenserà?

Da cinque anni sono in pensione, ma per liberarmi dal cinema ci ho messo due anni.

Cosa consiglia ai giovani per spronarli al carpe diem, cioè a cogliere l’istante e tutte le opportunità della vita, per usare le parole del professor Keating, alias Robin Williams, nel film L’attimo fuggente?

Consiglio loro di ridere, di godersi la gioventù, di andare dal proprio nemico, sì nemico, di vivere nella natura, di nuotare. Non abbiate paura, mai!

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Data di aggiornamento: 08 Novembre 2024

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