Muri che diventano prigioni

«Accogliere» è un verbo e, prima ancora, un movimento che dovremmo reimparare. Non è un dovere, una buona azione che si fa perché è giusta o rispetto alla quale si trovano ragioni per non farla.
15 Marzo 2018 | di

È il movimento stesso della vita: ricevere, in tutte le sue forme, e dare sono le sistole e diastole che la fanno pulsare, che portano nutrimento e ossigeno.

Senza uno di questi movimenti, la vita si ferma, si spegne, si rattrappisce. Accogliere significa prendere presso di sé, affettuosamente.

Per estensione, significa anche acconsentire (accettare un parere, per esempio). Quindi ha a che fare con il dire «sì». Un sì che cambia le nostre vite come quando accogliamo un bambino che ci rimette in movimento, ci rinnova, mobilita risorse che non sapevamo di avere.

Non è un caso che le società in cui non si accolgono più i bambini (tutt’al più si pensa a come «fabbricarli» secondo i nostri gusti e desideri) siano anche incapaci di accogliere i migranti. Magari si organizzano soluzioni «tecniche» per gestire l’emergenza, ma non si pensa di mettersi in gioco, di sentire questa come un’occasione per rinnovare le nostre vite.

Pensiamo che accogliere sia un dare che ci impoverisce, invece è un ricevere che porta linfa nuova. Dare e ricevere sono intrecciati, indistinguibili, come in ogni azione che sia propriamente umana, se siamo vivi.

Non c’è alternativa tra la vita e la morte, tra l’apertura e la chiusura, l’accoglienza o il rifiuto. Ciò che non respira, che non si allarga, che non lascia entrare aria da fuori, si spegne per asfissia.

Se pensiamo di salvarci chiudendo porte e finestre, alzando muri («se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori», scriveva Italo Calvino), costruiamo da soli la nostra prigione, e alla fine la nostra tomba.

Data di aggiornamento: 15 Marzo 2018
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