Il viaggio della vita secondo Bruno Catalano
Un affascinante signore sulla quarantina si sporge sul Canal Grande dalla Terrazza del Sina Centurion Palace. Ha l’aria curata ma un po’ stanca. Le occhiaie di chi ha viaggiato per molti chilometri e ancora non vede l’ombra di casa. Scruta l’orizzonte attraverso la foschia di una mattina di metà settembre. Ai suoi piedi due turiste giapponesi sorseggiano il loro caffè incuranti della vedetta che le sovrasta. Neppure gli squarci sul torso dell’uomo sembrano impressionarle. Come se ormai quel gigante di tre metri (Blue de Chine, bronzo, 2019) facesse parte del paesaggio e si fosse inglobato alle colonne vista laguna dell’hotel. In un attimo il suo ventre è un vaporetto. Poi una barca. Un gabbiano. La facciata dell’antistante Palazzo Gritti. È vuoto e pieno. Di passato e di presente, di ricordi e di attese. Stacca un passo in avanti, il bell’uomo. Come volesse proiettarsi nel futuro. Ma con la mano sinistra stringe forte la sua valigia colma di esperienze e saperi. Perché non c’è viaggio – per quanto piacevole o desiderato – che non produca ferite dentro di noi. E senza il bagaglio di una vita vissuta come faremmo a curarle?
Camminiamo tra le calli veneziane in direzione Campo San Gallo. La seconda tappa di questa mostra d’arte diffusa è un ex oratorio cinquecentesco un po’ defilato, seppur a pochi passi da piazza San Marco. Già sappiamo che l’artista ci sorprenderà ancora una volta. Niente di strano, perché stiamo parlando di Bruno Catalano, lo scultore di origini siculo-marocchine che ha incantato il panorama artistico contemporaneo con i suoi viaggiatori (Les Voyageurs) lacerati nel corpo e nell’anima. Varcare l’ingresso della chiesetta di San Gallo è un po’ come entrare in una stazione affollata. Ai quattro lati dell’edificio i bronzi di Laura Lou, Raphael, Bachir e Hubert, in piedi e pronti a partire con l’immancabile bagaglio a mano, lanciano messaggi silenziosi ai rispettivi modelli in terracotta in un gioco di forme e privazioni dove il vuoto non ha nulla da invidiare al pieno. Al contrario, si riveste di importanza e nuovi significati. Tutt’intorno, deposti sugli altari, bagagli d’ogni sorta assistono alla scena. Dalla ventiquattrore allo zaino, dal sacco al trolley fino alla borsa griffata: ogni valigia viene dalla collezione privata di Bruno Catalano, un archivio che si amplia a ogni viaggio del maestro.
La partenza e lo sradicamento, del resto, sono temi centrali nell’arte di Catalano fin dagli esordi. Lui che, nato in Marocco nel 1960, a soli 15 anni è costretto a trasferirsi a Marsiglia. Lui che, ventenne, lavora come marinaio per tre anni, salvo poi scoprire, dieci anni dopo, la scultura che lo assorbirà completamente. Sulle orme di Rodin, Giacometti, Claudel e César, l’autodidatta Catalano riparte dalla profonda crisi che ha investito la scultura nel Novecento. La rielabora e la supera. Frantumando le figure, egli mira a una nuova classicità. Una dimensione artistica in cui la scultura non è più – parafrasando Arturo Martini nel 1945 – «lingua morta», ma un mezzo per far riaffiorare l’immaginazione poetica, ormai sopraffatta da finzione e superficialità.
Nell’intento, Catalano si lascia ispirare dalla realtà quotidiana. I suoi viaggiatori, infatti, sono persone esistenti che ha incontrato nel suo peregrinare. C’è il businessman in giacca e cravatta e l’hipster (sorta di bohemien contemporaneo) in salopette, il pilota, il marinaio… A ciascuno l’artista abbina il rispettivo bagaglio, quasi un’estensione della personalità. La valigia diviene, così, il fulcro della scultura, perché parla al posto del personaggio e ne tiene assieme i pezzi. E non solo metaforicamente. Con tutti quegli squarci, come farebbero i corpi dei viaggiatori a restare in piedi, se non fosse per la zavorra di esperienze che si portano appresso? «Nella valigia dei viaggiatori – precisa Catalano – ci sono ricordi, nostalgia, il peso della vita, i vincoli... ma anche la speranza, l’orgoglio e il desiderio di viaggiare, vivere».
Ed ecco che il vuoto diviene opportunità, apre nuovi scenari e sollecita la fantasia di chi lo osserva. Come a chiedere uno sforzo in più, una prova di fiducia. Sì, perché senza la fiducia del pubblico, i viaggiatori restano degli spettri appena usciti da un tunnel spazio-temporale. Sbucati da una dimensione parallela. Il loro corpo è un po’ di qua e un po’ di là, come pure i loro pensieri sospesi tra passato, presente e futuro. E nonostante tutto continuano a camminare, perché la vita non si ferma. È un viaggio perenne. Lacerante e doloroso, ma anche fecondo. Scandito in tante tappe, come quella nella chiesa di San Gallo. «Non a caso il titolo della mostra è Poser ses valises – spiega Chiara Ravagnan, titolare, assieme al fratello Carlo, dell’omonima galleria che ha organizzato l’esposizione –: un invito a posare le valigie e a lasciarsi andare, seppur per un attimo, nel luogo per antonomasia (la chiesa appunto) dove puoi sentirti al sicuro».
Ricordi in laguna
Se per la personale di Catalano la scelta della chiesa di San Gallo non è casuale, tanto meno lo è quella della città. Terra di approdi e crogiolo di culture, Venezia è entrata nel cuore dell’artista molti anni fa. Quando, a 10 anni, egli compie un viaggio in Laguna assieme ai genitori. Sarà uno shock culturale per quel ragazzino nato a Khouribga, vicino a Casablanca, terzo e ultimo figlio di una famiglia di umili origini. Il ricordo di quei giorni lo accompagnerà in tutti quelli a venire, forgiando gusto estetico e sensibilità al bello. Da qui la passione per i dettagli e la moda, ma anche l’unicità che Catalano infonde a ogni scultura (anche se per ciascuna opera realizza otto copie e quattro prove d’artista, in realtà ogni pezzo è diverso).
Vestiti di tutto punto, con mocassini ai piedi e orologi al polso, i viaggiatori di Catalano non vanno assimilati ai migranti disperati che attraversano il Mediterraneo a bordo di barconi. Più in generale, il loro è il viaggio dell’umanità, un percorso in cui ognuno di noi può riconoscersi. «Viaggiatori sono monsieur “tutti”, i miei contemporanei» chiosa l’artista. Facile, dunque, immedesimarsi nei panni di Vichinie, una ragazza in jeans e canotta bianca che passeggia col suo borsone a testa alta, o in quelli di Simone e del suo bel trolley. Lo ha fatto anche l’artista, ritraendosi nel corpo di Cesar, guarda caso il personaggio in assoluto più strappato. Anche se, forse, c’è un altro protagonista che incarna altrettanto bene le lacune dell’artista. Stiamo parlando di Van Gogh, un uomo che, vittima della propria genialità, è stato spogliato di ogni cosa.
Dopo averlo incontrato nel foyer del Teatro Goldoni, proseguiamo la nostra visita nelle due sedi della Galleria Ravagnan: sotto il colonnato di San Marco e nel sestiere Dorsoduro, di fianco all’ingresso della Peggy Guggenheim Collection (in totale la mostra diffusa conta trenta sculture e cinque sedi). Qui ammiriamo bronzi di dimensioni minori, ma non per questo meno impattanti. I più piccoli risalgono agli esordi artistici di Catalano, che partì assemblando statuette di trenta centimetri in una fonderia allestita in casa, salvo poi optare per opere sempre più monumentali (e, quindi, per due fonderie esterne: una in Francia e una a Bologna). Adagiate su grandi parallelepipedi bianchi, le sculture di Dorsoduro s’inzuppano di vuoto e si contaminano con l’arte che le circonda. Mentre uno splendido elefante arancione scortato da un pesce rosso fa capolino da un quadro, dietro lo sguardo burbero di un hipster (Raphael) barba e borsone munito, all’altro lato della stanza una mucca gigante a pois si gode beata la scena.
In bilico tra reale e surreale, ci incamminiamo verso l’uscita cercando di riordinare le immagini e i ricordi della giornata. Per un istante ci sentiamo anche noi come les vojageurs, a cavallo di due dimensioni. Dinnanzi a «una porta su se stesso che si apre come una voragine». E finalmente comprendiamo appieno le parole di Bruno Catalano: «L’ispirazione viene dalla mia stessa vita… dallo sradicamento, dalla perdita di persone care, dalla fragile esistenza in equilibrio come le mie sculture». Per questo, tentare di decifrarle razionalmente non ci porterà lontano. Se invece riusciremo a fonderci con esse e a colmarne i vuoti, non ci sarà luogo – reale o immaginario – che non potremo raggiungere. Ricordiamo solo di portare la valigia!
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