Big data, dentro ci siamo noi!
Nella celebre favola, Pollicino lasciava cadere sassolini e briciole di pane lungo il sentiero per ritrovare la strada di casa: oggi gli basterebbe seguire la scia dei dati che ha disseminato qua e là, anche senza accorgersene.
Ogni giorno tutti noi spargiamo una miriade di dati che raccontano chi siamo, cosa facciamo, quali sono i nostri gusti. Alla cassa del supermercato passiamo la carta fedeltà e – zac – ci arrivano sconti personalizzati sui prodotti che potrebbero piacerci.
Oppure visitiamo il sito internet di una casa di moda e, in pochi secondi, la nostra bacheca sui social network è bombardata da consigli su giacche, gonne o pantaloni (tutta colpa dei cookies, segnalini ficcanaso che ci seguono in Rete).
Quando poi impostiamo un indirizzo sul navigatore dell’auto, subito il nostro percorso viene memorizzato e i segnali satellitari ci accompagneranno passo passo fino a destinazione, suggerendo anche hotel o ristoranti.
Siamo immersi nei dati, anzi nei big data, che l’Unione Europea definisce come «grandi quantità di tipi diversi di dati prodotti da varie fonti, fra cui persone, macchine e sensori».
Una valanga di dati attraversa la Terra
Gli esperti stimano che nel 2025 la massa di dati globale ammonterà a 163 zettabyte, ovvero 163 mila miliardi di miliardi di byte, un volume decuplicato rispetto a quello del 2016.
Secondo il più recente rapporto dell’Agcom, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, negli ultimi quattro anni il traffico dati su rete mobile in Italia è cresciuto del 517 per cento, dai 227 petabyte (milioni di miliardi di byte) del marzo 2016 ai 1.405 che abbiamo consumato in un mese la scorsa primavera.
Si parla di «big data» per la velocità con cui vengono raccolti, la loro varietà e il loro volume. Ma da soli servirebbero a poco o nulla: per diventare davvero utili devono essere lavorati e aggregati, attraverso meccanismi di calcolo, i cosiddetti algoritmi.
Il Politecnico di Milano ha calcolato che nel 2019 il mercato italiano dei Big data Analytics (cioè i processi di raccolta e analisi di immense quantità di dati) ammontava a un miliardo e 700 milioni di euro, in crescita del 23 per cento rispetto all’anno precedente, oltre il doppio rispetto al 2015.
E fioriscono anche nuove professioni, come appunto il Data scientist, il Data visualization expert o il Data Engineer, tutti specialisti nel trattamento dei dati.
Tra privacy e pluralismo
C’è chi adora i big data, c’è chi li teme. E, naturalmente, c’è chi realizza succosi guadagni: le grandi società internazionali, come Google, Facebook o Amazon, ne sono la dimostrazione diretta. Allora i big data sono buoni o cattivi?
«Come sempre, dipende dall’uso che se ne fa – risponde Antonio Nicita, docente di Politica economica alla Lumsa di Palermo e per vari anni commissario Agcom, che con Marco Delmastro ha pubblicato con Il Mulino il saggio "Big data. Come stanno cambiando il nostro mondo" –. L’emergenza della pandemia ha reso evidente che la sanità è un ambito in cui l’utilizzo può essere prezioso, seguendo il criterio della finalità pubblica e di promozione dell’interesse dell’individuo.
I dati sono, poi, importanti nelle questioni ambientali o per la gestione del traffico. L’uso è più problematico quando diventano strumento di profilazione degli individui per il nuovo mercato pubblicitario, senza che ciascuno di noi ne abbia piena consapevolezza».
L’«umanesimo» dei dati
Ma i dati non sono soltanto numeri o bit. Spesso dimentichiamo che dietro ci siamo noi, con il nostro vissuto, «e i dati sono una lente e un filtro per analizzare le storie. Rappresentano la vita», sottolinea Giorgia Lupi, designer dell’informazione originaria del Modenese, che da qualche anno vive a New York, dove è partner del celebre studio Pentagram.
Questo è il data humanism, l’umanesimo dei dati, come lo ha definito: «Quando si lavora con i dati, è facile credere che siano soltanto una raccolta oggettiva di fatti o cifre», continua, mentre invece è importante cercare di leggere nei dati anche le emozioni, le relazioni, la quotidianità di ognuno di noi, coglierne le sfumature che andrebbero smarrite in una fredda elaborazione.
Giorgia Lupi rappresenta i dati in modo del tutto diverso dalle solite tabelle o dai soliti schemi: li distilla in linee, colori, punti, segni grafici che diventano come quadri o installazioni artistiche sempre diverse, perché ogni persona è differente.
Dear Data, una cartolina per 365 giorni
Uno dei suoi lavori più celebri (entrato anche nelle collezioni di MoMA di New York) è Dear data: per un intero anno, con meticolosa pazienza, Giorgia Lupi e una collega londinese, Stefanie Posavec, hanno preso nota di quanto accadeva nell’arco delle loro giornate, i mezzi pubblici utilizzati, le strette di mano e i sorrisi ricambiati, i suoni ascoltati, i vestiti indossati, i libri sistemati sugli scaffali, perfino le litigate con il partner.
Da questi dati – tradotti in tratti, linee, cerchi colorati – hanno ricavato ogni settimana una cartolina. Giorgia spediva la sua da Brooklyn a Londra, Stefanie faceva altrettanto, inviando la sua postcard a New York.
Questa curiosa corrispondenza, fisica e analogica, è divenuta un diario illustrato, uno spaccato delle vite delle due autrici: i dati non erano più gelide cifre o fogli di calcolo computerizzati, ma un arcobaleno a tinte pastello.
Per ricordarci, una volta di più, che i big data racchiudono un mondo. E anche il nostro piccolo mondo.
L’articolo completo è pubblicato nel numero di ottobre 2020 del «Messaggero di sant'Antonio» e nell'edizione digitale che puoi provare gratuitamente cliccando qui.