Umanizzare le cure, la Toscana fa da apripista
Aleandra non vedeva sua madre da due mesi. Da quando cioè Grazia è stata ricoverata all’ospedale Santo Stefano di Prato. Era in attesa di un trapianto, ma il covid ha stravolto la sua già precaria salute. Sono seguite settimane di angoscia. Qualche videochiamata, e troppo silenzio. Finché un giorno arriva la bella notizia. La Regione Toscana ha approvato la delibera promossa da TuttoéVita onlus, dalla Fondazione Ospedale Pediatrico Meyer e dalla Commissione Regionale Bioetica. Un progetto pilota (già attivato con successo a Prato, Pisa, Empoli, Pistoia, Grosseto) che consente le visite ai familiari dei malati gravi, covid o meno, nelle Asl, nelle strutture sanitarie e parasanitarie.
E così Aleandra si precipita in ospedale assieme al fratello Rocco. Percorre stanze e corridoi protetti, indossa guanti, camici, maschere. È bardata come un marziano e, con tutti quegli strati, fatica a respirare. Ma l’emozione di rivedere sua madre ripaga qualunque sforzo. «È stata molto dura trovarla in quelle condizioni – ricorda oggi al telefono –. All’inizio ho avuto paura, mamma stentava a riconoscerci. Ma appena mi sono avvicinata a lei ho provato un gran senso di pace. Insieme abbiamo pregato e cantato Nel nome di Gesù di Nico Battaglia. Poi lei ci ha chiesto un selfie. Le abbiamo detto che le vogliamo bene e – allo scadere dei 15 minuti – l’abbiamo salutata con un “a presto”. Il giorno seguente mamma ci ha chiamato: per noi una sorta di miracolo, perché da settimane non prendeva più in mano neppure il telefono!».
A una trentina di chilometri da Prato, Vania è in ansia per sua sorella, ricoverata all’ospedale di Empoli per covid-19. Si sentivano tramite messaggi, ma da un mese più nulla. Solo le informazioni frammentate dei medici e le scarse speranze di guarigione. La notizia della delibera toscana arriva giusto in tempo. «Sono riuscita a vedere mia sorella cinque giorni prima che morisse – conferma Vania –. In quel quarto d’ora lei non ha mai aperto gli occhi, ma io so che ha percepito la mia energia. È stato davvero un dono poterla accarezzare e salutare per l’ultima volta. Un dono per lei, ma anche per me. Un tassello fondamentale nell’elaborazione del lutto».
Come quella di Aleandra e di Vania molte altre sono le storie di speranza che la delibera approvata dalla Regione Toscana lo scorso 22 dicembre ha reso possibili. Si tratta di un inizio, «un sassolino gettato tra le acque stagnanti di una sanità già indebolita da anni di tagli indiscriminati» spiega Alfredo Zuppiroli, cardiologo presidente della Commissione regionale di bioetica. Tutto ha inizio da una semplice domanda: «In ospedale continuano a entrare tutti i giorni tecnici, addetti alle pulizie e così via. Perché allora non permettere l’accesso anche ai familiari di chi è ricoverato in gravi condizioni?». In piena pandemia, viene da chiedersi se questa idea non comporti un ulteriore carico di lavoro per gli operatori sanitari. «Proprio per questo puntiamo molto sulla formazione di volontari chiamati a vigilare – risponde Zuppiroli –. Questa delibera non significa certo un allentamento delle misure di sicurezza anti covid». Per questo la speranza – come ha recentemente dichiarato monsignor Vincenzo Paglia, presidente dell’Accademia per la Vita – è che presto possa essere estesa a tutta Italia.
Alla radice della delibera la definizione stessa di salute per l’Organizzazione mondiale della sanità: «Uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o infermità». Lo sanno bene anche gli inglesi che distinguono tra desease (malattia fisica), illness (mentale) e sickness (sociale). «Purtroppo l’organizzazione sanitaria è troppo incentrata sulla dimensione fisica – si lamenta Zuppiroli –. Eppure è noto ormai a tutti che il disagio psichico produce ormoni dello stress e neurotrasmettitori in grado di incidere sul fabbisogno di ossigeno dei tessuti e sulla richiesta metabolica». Da qui l’importanza di «curare» non solo il corpo, ma anche le emozioni dei pazienti. Alle volte una carezza, un volto familiare, possono fare più di tante medicine.
A un anno dall’inizio della pandemia, intanto, si continua a sfornare numeri e grafici. Dai giornali alla televisione, le parole chiave sono sempre le stesse… contagi, morti, vaccino, lockdown… «Finora si è dato tanto risalto alla componente scientifica, sottovalutando l’aspetto umano – spiega padre Guidalberto Bormolini, dell’associazione Tuttoèvita onlus –. Il vero problema è la paura della morte che acceca e fa compiere scelte mortifere, anziché scelte di vita. Sembra un controsenso, ma è proprio così. Dobbiamo solo prenderne atto. Abbiamo sbagliato concentrandoci unicamente sulla riduzione del contagio. La soluzione è prendersi cura l’uno dell’altro. E, così facendo, lasciarci curare noi stessi da chi è malato».
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