Le parole e la Parola
«Ci sono solo le parole che contano. Il resto sono chiacchiere», sentenziava da par suo il famoso drammaturgo rumeno Eugene Ionesco. Ma fosse solo questo! Poi succede che ci siano pure parole «belle» e parole «brutte», «buone» e «cattive», e persino quelle giuste al posto giusto (il che, presumiamo, allude che ce ne possano essere di giuste al posto sbagliato e viceversa). E noi, in un tempo che con le parole ingrassa a vista d’occhio, e forse ne fa anche indigestione, sperimentiamo che non sempre siamo sicuri che quelle in circolo facciano davvero, e tutte, bene… Vorremmo allora confrontarci di nuovo con l’unica parola che meriti la maiuscola iniziale: Gesù Cristo che si fa carne, parola di salvezza perché parola che si dona senza tornaconto, non nella forza della voce che la urla ma nella povertà dell’amore che tutto dà. Parola «natalizia» non perché ci faccia vedere un altro mondo, ma nel nostro, confuso e persino di questi tempi contraddittorio e pieno di paure, ci mostra che anche le tenebre portano in sé la promessa della luce. Appunto, il resto sono chiacchiere.
fra Fabio Scarsato
«Andrà tutto bene»
«Andrà tutto bene». Questa frase campeggiava su migliaia di cartelloni, lenzuola, striscioni, appesi ovunque. Erano i mesi più duri della pandemia, quelli del lockdown assoluto, della paura, dello sgomento. Quelli delle lunghe file di camion militari che trasportavano i morti da covid. Lo sapevamo bene che quella frase non era del tutto vera, lo sapevamo ma volevamo crederci, perché ci serviva, aveva il potere di dare fiato al nostro coraggio e alla nostra resistenza. Ma se per la stragrande maggioranza delle persone quella sorta di mantra (mutuato dal titolo di una poesia del 2011 dell’irlandese Derek Mahon: Everything is going to be alright) aveva lo scopo di addormentare l’angoscia come una nenia infantile, per chi vedeva i propri cari andarsene senza un saluto o una carezza, per chi si ammalava gravemente o moriva, per chi non aveva più un lavoro, quella stessa frase suonava come una beffa atroce. Perché no, per loro non era, o non sarebbe, andato tutto bene. Quella frase, allora, diventa esemplificativa del potere simbolico e generativo che ogni parola racchiude in sé, della sua capacità di dare vita a sogni o a incubi, di «creare» mondi di speranza o panorami di disperazione.
«Le parole hanno una grande forza, tanto costruttiva quanto distruttiva – conferma Giovanni Grandi, docente di Filosofia morale all’Università di Trieste e autore del volume La parola amica (Qiqajon) –, perché agiscono soprattutto sulle relazioni tra le persone, che sono il tessuto del mondo, creando ambienti cooperativi o condizioni di tensione e di diffidenza. Esse, quindi, incidono sulla costruzione della realtà, accentuando l’unità o, viceversa, la frammentazione dei luoghi e delle comunità. Agiscono, però, anche sul nostro immaginario, sul modo in cui ci rappresentiamo le situazioni in cui ci troviamo a vivere e, in questo senso, costruiscono anche gli scenari entro cui poi ci muoveremo e prenderemo le nostre decisioni, personali e sociali. Specialmente la comunicazione politica oggi sfrutta molto questo potere delle parole».
Non è una guerra
E sono davvero tante le parole entrate nella nostra quotidianità in occasione della prima ondata di pandemia, alcune delle quali di certo non ci hanno aiutato. È il caso, per esempio, del cosiddetto «gergo di guerra» che, seppure utilizzato con le migliori intenzioni (trasmettere il concetto di un contrasto duro al virus), ha instillato nella nostra mente l’idea che tutto fosse lecito, pur di uscire da quanto stavamo vivendo. E non solo i giornali ne hanno attinto a piene mani, ma anche la politica o figure istituzionali come il premier Conte che, il 17 marzo 2020, così esordiva: «Siamo in guerra». O come il presidente francese Emmanuel Macron che qualche giorno prima, nel suo discorso alla nazione, aveva ripetuto per ben sette volte: «Nous sommes en guerre».
«La metafora della guerra ha lasciato perplessi molti in questo periodo di covid – sottolinea la giornalista Romina Gobbo che al tema ha dedicato un interessante volume, Ne uccide più la lingua che il covid: La guerra delle parole –. Credo che il rifiuto di questo immaginario sia sorto soprattutto nel segno del rispetto per i luoghi in cui la guerra non è metafora ma cruda realtà: quando tutto va bene, la società occidentale si dimentica delle guerre vere, mentre quando è ferita, le sembra di esserne l’epicentro. Il punto allora è: per che cosa si combatte e, soprattutto, contro chi? Nel nostro contesto culturale, il rischio che il nemico diventi l’altra persona (lo straniero, il migrante, il commerciante che può tenere aperta l’attività mentre io devo chiudere…) è alto e da esso occorre guardarsi».
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