L’equilibrio e la forza dei muri
Mi rimane in testa la frase di un manovale, di un selciatore, che, in piedi, dopo una giornata di duro lavoro, osserva la trama di pietre (una accanto all’altra, una sull’altra) del muretto a secco che ha appena costruito in un pendio delle montagne Apuane, terra di Toscana che si incunea fra Liguria ed Emilia: «Un muro a secco fatto bene è come una melagrana, è più bello dentro che fuori». Non è proprio così, per la verità: ma il suo disegno è bellissimo e sono straordinari gli incastri delle pietre. Sistemate in orizzontale, in verticale; le ha scelte con cura, ha cercato le forme più giuste: le sue mani sapienti hanno creato geometrie perfette. Solide e resistenti. E non c’è nessuna malta, nessun legante a fissare le pietre. A volte solo un po’ di terra.
Ha ragione l’architetta Anna Della Tommasina: «Chi costruisce muri a secco è un artista, deve avere una certa sensibilità». Il muretto deve possedere equilibrio, stabilità. Anna è cresciuta camminando per i sentieri segnati da queste costruzioni, da anni si occupa di questa antica architettura che ha aiutato, per secoli e secoli, la montagna a difendersi, a proteggersi da smottamenti, frane, erosioni.
I selciatori (un tempo erano gli stessi contadini che, grazie ai muretti, recuperavano terrazzamenti da coltivare) si procuravano il materiale a poca distanza: non avevano strumenti per trasportare le pietre e, quindi, usavano i materiali che erano a portata di mano. In questo frammento di Toscana si utilizzava (e si utilizza) la pietra di selva, il calcare, l’arenaria, i marmi. E così si costruivano sentieri, autentiche strade (la settecentesca e impervia Via Vandelli che univa Modena a Massa, strada militare e commerciale), argini; si segnavano confini. Si costruiva, cioè, un paesaggio. I contadini avevano cura di questa architettura: se una pietruzza si sfilava dalla trama del muretto, bisognava intervenire velocemente.
Con lo spopolamento della montagna sono lentamente scomparsi gli artigiani capaci di progettare simili operazioni. Il cemento ha sostituito, con rattoppi, le pietre e le acque sono state bloccate: comincia così il dissesto idrogeologico di un territorio. La montagna si crepa. Le frane si fanno pericolose. I muretti a secco provano a resistere, consentono il drenaggio delle acque, difendono la montagna dai guai delle alluvioni, delle erosioni, delle slavine. E sono una grande opera: si calcola che in Italia raggiungano la lunghezza di diecimila chilometri. E siano la testimonianza di antiche civiltà: i Messapi in Puglia, le vie romane attorno alle Alpi Apuane, i terrazzamenti dei contadini liguri. In Italia, sono ovunque.
Ci sono nuovi, piccoli segnali di speranza. Un gruppo di paesi mediterranei, tre anni fa, nel 2018, è riuscito a convincere l’Unesco che l’arte dei muretti secco è patrimonio mondiale dell’umanità, perché sono strutture «in perfetta armonia con l'ambiente e la loro tecnica esemplifica una relazione armoniosa fra l'uomo e la natura». Sauro Quadrelli, ex-presidente del CAI di Massa, nel leggere queste parole, deve avere avuto un sorriso di felicità. È un pioniere: «Nel 1986 cominciammo il restauro, pietra dopo pietra, della Via Vandelli».
Nel 1992 il CAI organizzò un corso per selciatori; vent’anni dopo, prima dello scoppio della pandemia, ne è stato organizzato un altro. «Vi era interesse» ricorda Quadrelli. Un piccolo gruppi di uomini voleva conoscere le tecniche della costruzione dei muri a secco. Apparvero, incuriositi, anche alcuni committenti che volevano restaurare quanto era stato abbandonato nel tempo. «Guardatevi attorno – invita Quadrelli –. Il paesaggio delle nostre montagne, delle montagne italiane è segnato dal lavoro dell’uomo». Capace, a volte, di costruire con saggezza: le pietre invece del cemento. È davvero l’arte di costruire appoggiando una pietra all’altra.
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