Dio, fonte di libere vite
A trent’anni dalla morte (6 febbraio 1992) di David Maria Turoldo, poeta e profeta, fratello, maestro e amico, porto con me – eredità viva – il sapore di libertà che emanava dalla sua persona e dalla sua parola. Era davvero un roveto di libertà  e speranza (Eb 3,6), e ascoltarlo era rimanere a nostra volta accesi. Nel regolamento della sua «Casa di Emmaus», a Fontanella di Sotto il Monte (BG), aveva voluto scrivere: «La libertà di ogni uomo, l’unione delle chiese, la pace nel mondo sono i nostri temi fondamentali».
Primo tema fondativo: la libertà , per sé e per ogni uomo. Le anime libere sono rare. Ma quando le incontri, le riconosci. Soprattutto perché provi un senso di benessere vicino a loro. Si stava bene vicino a padre Turoldo, era come mettersi davanti a una sorgente di energia: non so se era un santo o solo un monaco inquieto, un buon frate o un peccatore, di certo aveva grandi pregi e difetti molto rumorosi («faceva rumore anche quando pensava», scrive Camillo De Piaz). Ma certamente nessuno poteva imputargli ciò che l’Apocalisse rinfaccia alla chiesa di Laodicea, il vizio peggiore, quello della tiepidezza: «Poiché non sei né caldo né freddo, io ti rigetto».
Era un uomo appassionato e colto, sempre pronto a prendere la parola sui temi di frontiera. E ci faceva scoprire che i profeti non solo abitano le frontiere, ma le ampliano, le spostano più in là . Questo faceva sì che potesse parlare a tutti, al credente e al non credente, al quale si rivolgeva chiamandolo «fratello ateo, nobilmente pensoso». Lo incontravi e incuteva soggezione con la sua imponenza e la vigorosa fisicità , da antico guerriero vichingo, ma poi ti seduceva con l’invincibile sorriso degli occhi infantili e chiari. «Figli di questa pianura friulana – diceva –, dove gli occhi di tutti diventano azzurri a forza di guardare».
Negli anni ’70, giovane frate, andavo alla sua casa-abbazia non solo per le liturgie domenicali, che erano eventi attesi come il pranzo, ma per gli incontri con le voci più nuove e sognatrici della Chiesa; faceva parte di una rete di monti cui si ascendeva per capire e resistere; tutte le comunità nascenti allora in Italia (Stinche, Bose, Nomadelfia, don Siro Politi, Dossetti ) salivano alla Casa di Emmaus, per confrontarsi e ripristinare insieme le riserve di sogno, di utopia, di speranze, di novità , di fantasia, di resistenza. Dalla sua abbazia isolata accompagnava tutto ciò che nasceva, i primi germogli, i primi passi di una Chiesa nuova, i poveri, dovunque fossero. Lui e i suoi amici danzavano attorno al Concilio Vaticano II.
Casa di Emmaus era un vero porto di terra, dove hanno trovato accoglienza tutti i viandanti e i cercatori. Quanti naufraghi sono approdati lassù, quante crisi e ripartenze, di preti e suore in difficoltà , e poi credenti e politici, atei e rifugiati sudamericani, anarchici e artisti, esuli e torturati dai più vari regimi, cercatori d’assoluto. Che bello, per noi giovani, poter sostare lì, e sentire convergere, pulsare i movimenti di liberazione dei popoli, i costruttori di pace di tutto il pianeta, le manifestazioni contro la guerra del Vietnam, la straordinaria liturgia contro l’idolo della morte all’aeroporto di Comiso, celebrare il martire Romero... quando gran parte del mondo cattolico brillava per il silenzio, lui era a mettere nei reliquiari i volti degli uccisi per il Vangelo e la giustizia. Soprattutto imparavo, da lui a Fontanella, che ogni persona valeva più delle sue idee, che prima viene l’uomo e poi la sua fede. L’uomo vale di più. L’uomo, e guai se ci fosse un aggettivo.
Da dove traeva linfa la sua libertà ? Dalla passione per Dio, che lui chiamava «fonte di libere vite». E dalla passione per l’uomo. Turoldo si è inserito nel filone biblico e teologico del Go’el, il Liberatore dell’Esodo, sentiva come sua la storia sacra dei capovolgimenti, di tutte le liberazioni, della fine degli esili. Cristo, che fai del più povero un principe del tuo Regno... nasce dal Vangelo e dalle ferite della vita la sua scelta degli ultimi. I poveri erano il suo roveto ardente, il luogo della rivelazione di Dio, e in loro difesa la sua voce diventava un ruggito, il ruggito di un leone. Conosceva la beatitudine degli oppositori.
Dio gli aveva dato due doni: la fede e la poesia. E dandogli la fede gli aveva imposto di cantarla tutti i giorni (Carlo Bo). David liberò la Parola di Dio da ogni sequestro ecclesiastico, da ogni appassimento; la fece scorrere nelle piazze, nelle vie; ha cantato un Cristo che scorre dentro la vita, dentro il torrente della vita: nel sapore del pane, nel vino che è sangue, nella mano che accarezza, «nel cuore delle cerve e sotto le ali delle rondini» e nel solco della terra nera, nella fessura di luce che è la finestra dell’abside aperta a oriente; nei poveri, sola forza invincibile. Lo sentivi amare con la stessa intensità e poesia il cielo e la terra.
Cos’era per lui la poesia? «Poesia è rifare il mondo, dopo il discorso devastatore del mercadante». Niente di meno di questo: rifare il mondo. «Un solo verso può fare più grande l’universo». Chiede: sulla mia tomba scrivete soltanto «ha sognato cieli nuovi e terra nuova», sognatore di un mondo dove la sopraffazione dei forti non sia normale, dove i mercanti non spengano la fiamma delle cose, il petrolio non valga più dell’uomo, e l’ultimo di tutti sia il più vero tabernacolo di Cristo. Liberò le parole obsolete della liturgia, quella che parla solo di se stessa e a se stessa, proponendo invece un linguaggio che tutti capivano, una lingua non morta e non volgare (R. La Valle). Lo fece con la infaticata traduzione poetica dei Salmi, protratta fino all’ultima sera della sua vita; creando a Fontanella forse il più prolifico laboratorio liturgico del post concilio in Europa, da cui uscirono centinaia e centinaia di splendidi inni. E nelle sue parole Dio era più vivo, Dio era più vero.
Il fascino della sua personalità nasceva anche dal suo «oscillare tra pietà e furore, tra fedeltà e ribellione. Proprio per questo fu accusato e attaccato con tre aggettivi definiti da lui insopportabili: prete di sinistra, prete moderno e prete scomodo. «Tre aggettivi che mi hanno sempre perseguitato, come i tre chiodi della mia, si fa per dire, crocifissione, per fortuna non riuscita» (M. Maraviglia). Contro i quali non c’era nulla da fare se non aspettare che le cose si decantassero da sole, convinto della pazienza della verità . «A me non interessava una scelta di partito e neanche di schieramento, ma una ben più coinvolgente, stare dalla parte dell’uomo che va da Gerusalemme a Gerico, scegliere sempre l’umano contro il disumano». «Questo non è – rivendicava – essere di sinistra, questo è Vangelo».
È stato perseguitato dalla istituzione, ma non vinto; anche se colpito da sanzioni, mai però si è atteggiato a vittima, come fanno i deboli: non è mai sconfitto chi crede nelle battaglie che affronta. David regalava stupore, quella esperienza felice che scardina gli schemi, che si inserisce come una lama di libertà in tutto ciò che ci saturava: rumori, parole, schemi mentali, abitudini. Regalava la capacità di incantarci, come accade ogni volta che incontriamo qualcuno che ha parole che aprono spazi al volo, che toccano dentro, perché nate dal silenzio, dal dolore, dalla vicinanza al Roveto di Fuoco. Apparteneva a quel «fortissimum genus» (san Benedetto) di persone libere e accese di cui abbiamo tutti dolce e fortissima nostalgia: Manda ancora profeti, Signore, / uomini certi di Dio / uomini dal cuore in fiamme / e tu a parlare dai loro roveti.
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