A volte basta uno scatto
Da quasi una settimana stavo viaggiando nel nulla dei Monti Nuba. Fotograficamente non avevo prodotto granché, i militari dell’esercito di Khartoum erano onnipresenti e non gradivano le fotocamere portate al collo. Più di una volta finii nelle tende da campo adibite a caserme, la domanda era sempre la stessa: gli uomini in tuta mimetica e infradito volevano sapere cosa facessi in quel dimenticato angolo di Africa. Alla presenza di un comandante, tutto si risolveva in breve tempo. Altrimenti bisognava aspettare all’infinito. Non bastava muoversi con astuzia tra quelle colline, bisognava essere invisibili.
Arrivato nel distretto di Luere, la roccaforte controllata dall’SPLM (Esercito Popolare di Liberazione del Sudan), le cose cambiarono improvvisamente. I militari non erano più imbronciati, davano la loro disponibilità e a volte sorridevano. Mostravano interesse nella mia presenza, curiosi del fatto che fossi lì per documentare il dramma della loro gente, che quelle fotografie sarebbero state portate fuori dal Sudan. Agli occhi di tutti.
Nella regione di Kauda c’era un piccolo dispensario. L’unico. Era stato costruito nel villaggio di Kumo, nella piana dove passava la pista che portava a Gidel. Di questo piccolo centro sanitario si occupava un gruppo di volontari di Save the Children. Erano loro a tenerlo in vita. Il responsabile si chiamava Patrick: un medico kenyota. Ricordo che mi accolse con una calorosa stretta di mano, era orgoglioso di mostrami la sua attività nella clinica. Ci addentrammo nei reparti con discrezione, la maggior parte dei letti era occupata da bambini, quasi tutti affetti da malaria in stadio avanzato. Per molti di loro non c’erano cure. Ogni anno trecentomila bambini africani erano vittime delle zanzare killer. Le anofele non davano vie di scampo. Nonostante il caldo soffocante, i pazienti erano completamente avvolti in coperte di lana. La febbre malarica aveva la potenzialità di ghiacciare i corpi di adulti e bambini. Si faceva fatica a trovare la concentrazione per uno sguardo univoco, era inevitabile soffermarsi sulle sagome allettate più piccole. Sotto quei fagotti improvvisati c’erano vite giovanissime in cerca di luce, che purtroppo non sarebbe mai arrivata.
Patrick mi fece capire che era importante documentare, anche solo con una fotografia, da poter mostrare all’Occidente. Ma non me lo chiese esplicitamente. Ci fermammo ai piedi di un letto dove a lato era seduta una donna di mezza età. Dopo qualche istante di silenzio, Patrick invitò la donna che accudiva il bambino, a sollevare il lembo della coperta. Capii senza indugio che dovevo fare qualcosa, era arrivato il mio turno, dovevo mettermi in gioco. Avvicinai la fotocamera all’occhio e misi a fuoco il volto del bambino. Feci un solo scatto, non ne servivano altri. Riabbassai subito lo strumento di lavoro sul petto, con un cenno universale ringraziai la donna e senza voltarmi me ne andai. Patrick mi guardò scrollando la testa, ma senza dire nulla. Il suo silenzio era esplicito, non servivano parole.
Jamal, il mio autista, mi stava aspettando appoggiato alla portiera della vecchia Toyota bianca. Il motore era già acceso. Abbracciai Patrick e tolsi il disturbo. Non serviva trattenersi per altro tempo. Nel cielo le stelle si stavano accendendo, il giorno stava per finire. A Kumo, non ci sarebbe più stata la luce per le fotografie.