Il nostro Albino Luciani
Incredulità: questo il sentimento più diffuso nel Paese la mattina del 29 settembre 1978. Non poteva essere altrimenti. La notizia diffusa all’alba da radio e tv aveva dell’incredibile. Oggi sarebbe stata scambiata per una delle tante «bufale» che imbonitori truffaldini scaricano quotidianamente sui canali social. Alla fine l’inconfutabile evidenza dei fatti si impose. Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I da soli trentatré giorni, era morto davvero, stroncato nel sonno da un infarto cardiaco. Trentatré giorni, meno di un battito d’ali nella bi-millenaria storia della Chiesa, ma bastarono al nuovo Pontefice per conquistare la simpatia della gente con il suo naturale porsi timido e dimesso, illuminato da un sincero sorriso; con la sua capacità di dialogare con tutti, anche con i bambini che, nelle udienze del mercoledì, invitava al suo fianco a dire la loro. La posta in gioco era sempre alta. Sopra tutte, la necessità di porre al centro della vita di ciascuno e della comunità Dio, che ci cura con amore di Padre e di Madre, messo all’angolo da chi, ubriacato dai successi della scienza, riteneva di potersela cavare da solo. E altro ancora, che lasciava intravedere un pontificato forte e vivace. Allora, svanita l’incredulità, subentrarono l’amarezza, lo sgomento e il cordoglio.
Anche il «Messaggero di sant’Antonio» mise il lutto. E ce n’erano di motivi. Tra questi, la stima e l’amicizia che legavano l’ex patriarca di Venezia alla famiglia antoniana, cementate dalla comune passione per il giornalismo e dalla convinzione che i «nuovi pulpiti» da cui annunciare oggi il Vangelo dovevano essere i moderni mezzi di informazione. «In chiesa – sosteneva Luciani – ti ascoltano poche decine di persone, nei giornali, radio e tv, alcune migliaia». Il «Messaggero di sant’Antonio», edito dai frati della Basilica antoniana, con i suoi due milioni e oltre di potenziali lettori, era un «superpulpito». Per questo, quando il direttore, padre Francesco Saverio Pancheri, gli propose di collaborare con la rivista antoniana, accettò subito. Albino Luciani il giornalismo ce l’aveva nel sangue. «Se non avessi fatto il prete – ci confidò un giorno – avrei fatto il giornalista».
Delle doti richieste al giornalista, egli aveva la capacità di cogliere il nocciolo dei problemi e di raccontarlo con semplicità e chiarezza tali da essere compreso da tutti, «dal professorone alla vecchietta illetterata», come gli aveva raccomandato il parroco di Canale d’Agordo (BL), nell’affidargli il bollettino parrocchiale come palestra per le prime esperienze giornalistiche. Alle doti innate egli aveva affiancato una cultura vastissima, religiosa, ma anche profana. E fu proprio quest’ultima a suggerirgli la forma da dare ai suoi articoli, l’epistolario, che gli consentiva di tenere un’immaginaria corrispondenza con illustri personaggi del passato. Un artifizio letterario nel quale coinvolse personalità diverse tra loro per il periodo storico in cui vissero, la cultura, l’estrazione sociale e religiosa. Ve ne infilò anche alcuni notissimi creati dalla fantasia come Penelope, il burattino Pinocchio, Figaro il barbiere di Siviglia.
Epistole dal paradiso
La prima lettera la destinò a Charles Dickens (1971) e l’ultima, scritta «trepidando», a Gesù (1975). Altre le scrisse a letterati come Mark Twain, Charles Péguy, Trilussa, Goethe, Carlo Goldoni; a teste coronate come Maria Teresa d’Austria, o aureolate come i santi Teresa d’Avila o Bernardino da Siena. Passando con sorprendente disinvoltura da un secolo all’altro, Luciani sottoponeva ai suoi interlocutori temi e problemi di sempre, praticamente la vita quotidiana dei cristiani di ieri e di oggi, impegnati nel difficile compito di essere testimoni credibili del Vangelo nel proprio tempo e di stare insieme agli altri da fratelli, lottando perché a tutti siano assicurati libertà, rispetto e una vita dignitosa. Anche la risposta era quella di sempre: se non è Dio a reggere la baracca, tutto si sfascia. Ai redattori il compito di «passare» le lettere per individuare refusi e apporre le note tecniche per il compositore. Lo facevamo «trepidando», intimoriti dall’autorevolezza dell’autore. Luciani ci facilitava il compito, presentando testi inappuntabili (a volte li recapitava lui stesso in redazione), scritti con leggerezza, brio, ironia, ravvivati con gustosi aneddoti che trasformavano la fatica del lavoro in piacere.
Quando si decise di pubblicare quelle lettere in un libro, accompagnai padre Pancheri dal patriarca per esporgli il progetto e chiedere il suo consenso alla pubblicazione. Luciani acconsentì, purché fossimo noi a occuparci di tutto. In quei giorni era a fianco degli operai in lotta per difendere il posto di lavoro minacciato. Era reduce da un inconcludente incontro con i padroni, nel suo volto i segni della stanchezza e dell’amarezza. «Un vescovo deve fare anche questo – ci confidò –, ma io non sono portato per queste faccende. Sono più a mio agio in biblioteca tra i libri». Il volume fu pubblicato (gennaio 1976) con il titolo IIllustrissimi. Alla prima edizione seguirono altre che insieme hanno raggiunto numeri di copie vendute da capogiro.
Compagni di strada
I rapporti con il patriarca non finirono qui. Fu Luciani un giorno a chiedere l’aiuto degli amici del «Messaggero». La diocesi pubblicava un settimanale che aveva bisogno di un radicale rinnovamento, «La voce di san Marco» (voce della «Curia» sogghignavano i maligni). Luciani voleva che diventasse «voce della gente», che raccontasse la vita delle comunità locali alle prese con i fermenti e le novità attivati dal Concilio Vaticano II. Lanciata l’idea, non faticò a trovare persone qualificate disposte a tentare l’impresa. Insieme progettarono «Gente Veneta», che è ancora oggi il settimanale della diocesi di Venezia. Per passare dal progetto ai fatti, però, serviva qualcuno che curasse concretamente la confezione del settimanale. Il patriarca non l’aveva. Il «Messaggero», già coinvolto nell’impresa come stampatore, risolse il problema mettendo a disposizione un locale, due giornalisti e un impaginatore. «Gente veneta» poté così partire con la benedizione del patriarca e la supervisione del suo segretario, don Mario Sinigaglia, sulla cui esperienza il patriarca aveva fatto affidamento per il buon esito dell’impresa.
Si proseguì per due anni, finché la diocesi non fu in grado di approntare una redazione propria. La presenza di don Mario fu preziosa anche per altri versi. Avendo condiviso, da segretario, buona parte delle giornate del patriarca e quanto nel frattempo succedeva, aveva avuto modo di conoscerlo come pochi. Furono le sue confidenze a farci scoprire alcuni tratti decisivi del suo carattere. Luciani non aveva mai dimenticato le sue origini di figlio di montanari, che avevano conosciuto i disagi dell’emigrazione e della povertà, da lui stesso condivisi. Per questo la sua vita, pur svolgendosi in palazzi da ricchi, doveva scorrere sui binari della sobrietà e della modestia, senza lussi e privilegi. Si sentiva un cristiano al servizio di altri cristiani. Per lui, titoli e divise, color viola o porpora, erano solo un promemoria per non dimenticarlo. Poi la sua elezione a Papa. Si disse che nessuno se l’aspettava. Proprio nessuno? Leggete questa. Un giorno don Mario ci confidò: «Il patriarca s’è messo a studiare lingue. Gli ho chiesto il perché, ma non mi ha risposto. Secondo me, sta studiando da Papa». Noi abbiamo liquidato la battuta con un irriverente sorriso. Poi le cose sono andate come sono andate.
(*Piero Lazzarin, ex caporedattore del «Messaggero di sant’Antonio»)
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