Novembre, il mese delle alluvioni
Ascolto il messaggio vocale di Silvia e mi stupisce la sua voce calma. Messaggio mandato agli amici nella notte fra il 2 e il 3 novembre. La notte in cui il Bisenzio, fiume che scende dall’Appennino e attraversa la piana pratese, esonda mentre i suoi torrenti rompono, in più punti, gli argini. Silvia e suo marito vivono in una cascina della piana. In mezzo ai campi, fra il corso dello stesso Bisenzio e del suo affluente Marinella di Travalle. Un fosso più che un torrente, sette chilometri di corso, chiuso da sponde di cemento, quasi sempre in secca per lunghi mesi. Su un lato di questo triangolo di terra c’è l’autostrada. Una barriera: in quella notte ha fatto da diga al muro di acqua che ha accerchiato la casa di Silvia. Silvia e suo marito hanno cercato di andarsene. Di fuggire. La corrente elettrica era già saltata. Il cancello non si è aperto e le onde di acqua stavano invadendo la cascina. Sono scesi dalla macchina e hanno cercato salvezza su un trabattello, una impalcatura mobile lasciata da muratori che stavano facendo lavori nel portico della casa. Vi hanno passato la notte, lanciando appelli per un soccorso: «C’è un metro e mezzo e più di acqua, sono su un ponteggio, spero che qualcuno venga a prenderci veloce». Niente, nessuno è riuscito ad arrivare. L’acqua è salita fino a due metri e venti. Fino a quando poteva durare la batteria del telefono? Posso solo immaginare la paura. E solo alle luci dell’alba, le acque sono scese fino a consentire a Silvia e suo marito di scendere. Una piccola storia, finita bene, nel disastro dell’alluvione che ha colpito il cuore della Toscana. Silvia, per tutta la notte, ha provato a cantare come fa in un piccolo gruppo musicale del suo paese.
Non ci si rende conto di quanto è accaduto nella piana di Campi Bisenzio se non si è nel mezzo dell’acqua che ha provocato nove vittime, invaso, accerchiato, minacciato 45 mila abitazioni, sfollato mille e duecento persone, allagato novecento strade, provocato 100 mila tonnellate di rifiuti (i mobili, il frigorifero, i letti, i libri, i ricordi di una vita) e 350 mila metri cubi di «materiali da rimuovere». Un replay di quanto accaduto in Romagna sei mesi prima. Per le strade di Campi Bisenzio, in buona parte ripulite in una settimana di lavoro ininterrotto, con le macerie dei mobili accumulante davanti alle porte, si ascolta un coro di voci: «Nessuno ci ha dato una mano, siamo stati abbandonati, non si è visto nessuno». Situazione drammatica, il sindaco Andrea Tagliaferri ha spiegato che i vigili del fuoco avevano cinque mezzi anfibi e una decina di gommoni. Per un territorio abitato da quindicimila famiglie. L’allerta regionale, per quella notte, non era rossa. Il territorio fra Campi, Calenzano e Prato è fortemente urbanizzato, quasi un’unica città metropolitana con Firenze: fabbriche (colpite duramente: in molti, nelle ore dello sconforto, annunciano che non riapriranno), laboratori, officine, case, condomini, villette, con garage seminterrati, spesso trasformati in «tavernette». È una storia urbanistica che ha dimenticato per decenni che questo territorio era una palude. Altissimo il rischio idrogeologico, un reticolo di torrenti, forre, fossi, canali imbrigliati dal cemento, perfino piccoli laghi ben conosciuti dagli uccelli migratori.
La cascina di Silvia sorge in via del Pantano, non è certo un nome casuale. La vita dei campigiani è sempre stata scandita dal ciclo delle alluvioni. Solo nel ‘900: 1926, 1966, 1991. Tutte nel mese di novembre, stagione ben impressa nella memoria dei fiorentini. Le acque qui hanno sempre rotto gli argini del Bisenzio, del Marina, del Marinella. E, come ogni volta, arrivano subito, reattivi e pronti più di ogni autorità pubblica, i volontari, i ragazzi delle scuole, delle università, la gente delle associazioni. Non si trovava più un solo paio di stivali di gomma fra Prato e Firenze. Centinaia e centinaia di uomini e donne sono arrivati con le pale e hanno subito cominciato a spalare, ad aiutare gli anziani, a cercare di liberare case, a togliere il fango. Hanno portato cibo, acqua, hanno messo in salvo, hanno cucinato nelle mense spuntate nei circoli. Gli ospedali hanno fornito le tute che erano state comprate per proteggere gli infermieri durante il Covid. I supermercati hanno distribuito pacchi di alimenti. Lo stabilimento della Gkn, la fabbrica di Campi a rischio di chiusura definitiva con la fine dell’anno, è diventato, forte dell’esperienza di lotta dei suoi operai, luogo di coordinamento di centinaia di volontari e di aiuto. Gli «angeli del fango» riempiono, coraggiosamente, generosamente, il vuoto di una società pubblica incapace di proteggere i suoi territori e i suoi cittadini.