Le risorse del nostro Sud
L’Economia civile, la cui stagione d’oro è stata il Settecento napoletano e il cui capostipite l’abate salernitano Antonio Genovesi, è l’anima più vera e profonda della nostra economia e società. Nelle Lezioni di Economia civile, pubblicate da Genovesi tra il 1765 e il 1769, leggiamo pagine molto importanti sull’Italia e sul suo Meridione, che sembrano scritte non ieri, ma domani: «I Greci chiamavano la Magna Grecia e molte altre provincie di questo Regno, il paese del vino; ma potevano anche chiamarlo il paese de’ grani, e non solo di frumento, ma d’ogni altro genere. La Sicilia era il granaio di Roma, e ora è di molti popoli. I suoi vini sono il nettare che bevono le migliori tavole non solo degl’Inglesi, ma de’ Francesi altresì, ancorché superbi del loro Borgogna. Paesi di seta, e oggi quasi i soli seri di Europa. Paesi di bambagia, la quale, per confessione di tutti, è la migliore del globo terraqueo; paesi di lana, di lino, di canape, d’ogni sorta di animali; paese di caci, di manna ecc. ecc. ecc., paese di grand’ingegni...» (p. 325).
E così, dopo aver tessuto queste lodi alla sua terra, Genovesi si chiede, e noi con lui: perché il Sud Italia, nonostante tutta questa ricchezza, non conosce un adeguato sviluppo economico? Perché in queste terre non si generano sufficienti «denari»? «Io – continua Genovesi – non crederò mai che manchi l’ingegno. Chi si può persuadere che i climi temperati generino de’ cervelli più grossolani che i gelati? Neppure che manchi la voglia di faticare; non ci è paese in Europa, dove più si fatichi, e certe volte si stenti, quanto le due Sicilie. Dunque bisogna conchiudere che manchi il coraggio, e che vi si fatichi male». Sono parole molto belle sul nostro Sud, soprattutto se consideriamo che oggi la prima indigenza delle nostre terre meridionali sta nella disistima da parte del resto del Paese e dei suoi governanti, della quale la proposta di «autonomia differenziata» è perfetta icona.
La ragione di questa mancanza di «coraggio» e di buona «fatica» (lavoro), per Genovesi è chiara e duplice: una scuola inadeguata e l’avvilimento degli imprenditori, qualcosa che non riguarda solo il Sud. «La ragione – scrive infatti – non può essere che o la rozzezza degl’artisti o la pressione dello spirito; delle quali la prima è conseguenza del non aver fra noi scuole di disegno e di arti; la seconda del non diritto metodo di finanze. Il massimo peso delle finanze è ricaduto sulle arti, e doveva aver la base sulle terre; quindi è che le arti ne sono state scoraggiate e avvilite». Parole sante. Ieri come oggi non c’è futuro per un Paese quando la tassazione continua ad «avvilire» e «scoraggiare» le arti, cioè gli artigiani e le imprese, e a favorire le rendite. I privilegi accordati alle rendite – finanziarie, dei consulenti, immobiliari ecc... – sono sempre il primo indicatore dei sistemi economici e sociali ancora feudali, o neo-feudali. Genovesi era cosciente che quelle qualità e quei primati dell’economia e dell’ingegno italiani erano senz’altro virtù reali, ma erano mescolate a vizi non meno reali, come sempre, come ovunque.
Ma quella lettura generosa del suo Regno ispirò le riforme e le rivoluzioni napoletane, brevi ma ancora luminose, e continua ad alimentare la tradizione dell’Economia civile. Il talento civile o lo «spirito» di un Paese, dei suoi governanti e della sua gente, sta nel saper creare un orgoglio e una speranza civile veri a partire da segni reali presenti nel passato. Togliete a un popolo questa capacità e resteranno soltanto l’arte della denigrazione, la critica, il pessimismo, il turpiloquio, l’incattivimento reciproco. Non possiamo più permettercelo.
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