I resilienti di Ferramonti
Il 27 gennaio si celebra il Giorno della memoria che commemora le vittime dell’Olocausto. Quest’anno ha un significato particolare perché coincide con l’80° anniversario della liberazione del Campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, da parte dei soldati dell’Armata Rossa. Ricordare chi ha avuto solo la speranza come unica arma per sconfiggere l’orrore della guerra e l’abisso della persecuzione, ci insegna che, quando tutto sembra perduto, l’azione delle donne e degli uomini di buona volontà che, nella solidarietà e nella condivisione della propria sofferenza cercano conforto e sostegno reciproco, anche se appartengono a religioni, nazionalità o estrazioni sociali diverse, riesce a catalizzare una resilienza tale da sconfiggere anche il più formidabile degli eserciti. È quanto accadde in Calabria nella prima metà degli anni Quaranta del secolo scorso.
A Ferramonti, frazione del Comune di Tarsia (Cosenza), sorse, in un’area paludosa e malarica, il più grande campo di concentramento costruito in Italia dal regime fascista, destinato alla reclusione di ebrei (in seguito alla promulgazione delle leggi razziali del 1938), e di «nemici stranieri». Su indicazione del ministero dell’Interno di allora, furono erette 92 baracche in un’area di 16 ettari, pari a circa 20 campi di calcio. Gli edifici erano divisi in camerate, dotate di latrine e lavabi comuni. Alcune baracche vennero adibite a luoghi di culto, e fu creata anche una scuola per l’infanzia. Da Ferramonti transitarono circa 3 mila persone, soprattutto ebrei provenienti dalla Germania e dall’Europa orientale. A sovrintendere il campo, dal giugno del 1940 al gennaio del 1943, fu il commissario di Pubblica sicurezza Paolo Salvatore, poi sostituito per pochi mesi da Leopoldo Pelosio, prima dell’arrivo di Mario Fraticelli, ultimo direttore del Campo di Ferramonti, dal marzo del 1943 fino all’arrivo degli Alleati. I commissari erano coadiuvati da una decina di agenti e dal maresciallo di Pubblica sicurezza Gaetano Marrari. A garantire la sorveglianza era un reparto di camicie nere della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, reclutate nei paesi limitrofi.
La democrazia nel lager
Sebbene non si possa parlare di un campo di concentramento di tipo nazista, a Ferramonti non mancava la disciplina. Gli internati erano chiamati all’appello tre volte al giorno. La corrispondenza era sottoposta a censura. Era vietato leggere giornali e libri che non fossero in lingua italiana. La politica era bandita, e con essa anche i giochi a carte che potevano essere causa di litigi. Inoltre, i prigionieri dovevano occuparsi della pulizia delle camerate. In questo clima, gli internati ebbero modo di dedicarsi ad alcune attività sportive e culturali che mitigarono la fame, le privazioni e le malattie che erano costretti a patire. La disciplina italiana, tutt’altro che teutonica, lasciò ben presto ampi margini di discrezionalità, così che i reclusi si organizzarono formando un parlamentino del campo in cui si praticava la democrazia – sconosciuta al fascismo –, e dove si raccoglievano e rappresentavano le varie istanze degli internati. E così, quello che aveva avuto l’ambizione di diventare un lager, si trasformò ben presto in un laboratorio politico che ricalcava, ante litteram, le aspirazioni universali alla tolleranza e alla convivenza pacifica. Anche perché la comunità di Ferramonti era assai variegata. I primi arrivati furono, il 20 giugno 1940, gli ebrei stranieri fermati in alcune città dell’Italia centro-settentrionale. Ma vennero internati anche non ebrei: greci, jugoslavi, francesi, cinesi, rom e apolidi. Nell’autunno del 1940, giunsero a Ferramonti 300 prigionieri, tra i quali numerose famiglie con bambini, provenienti da Bengasi, in Libia, che avevano atteso invano un imbarco per la Palestina.
Gli opposti destini di Lopinot e Pacifici
L’11 luglio 1941 arrivò a Ferramonti il frate cappuccino poliglotta Callisto Lopinot, assegnato al campo su richiesta degli internati cattolici ai quali aveva fatto visita, meno di due mesi prima, l’arcivescovo Francesco Borgongini Duca, che sarebbe tornato a trovarli anche nel maggio del 1943. In breve tempo, Lopinot divenne una figura di spicco nel campo avviando, anche in questo caso ante litteram, un proficuo dialogo interreligioso con l’archimandrita ortodosso e con i rabbini reclusi. Un altro centinaio di ebrei arrivò il 31 luglio 1941 da Lubiana, appartenente all’allora Jugoslavia. Tre mesi dopo, toccò a un nuovo gruppo di quasi 200 ebrei provenienti dal Campo di Kavaje, in Albania. Nei primi mesi del 1942 fu la volta di 500 ebrei, in gran parte cecoslovacchi, catturati l’anno prima mentre erano in viaggio anch’essi per raggiungere la Palestina via mare, a bordo del battello Pentcho che, però, era colato a picco nel mare Egeo. I naufraghi erano stati salvati dalla nave militare italiana Camogli prima di essere trasferiti inizialmente a Rodi.
Il 24 marzo 1942 a visitare il Campo di Ferramonti fu il rabbino capo di Genova, Riccardo Pacifici, che celebrò vari riti, tra cui alcuni matrimoni. Pacifici tornò ancora nell’ottobre del 1942 e nel luglio del 1943. Ma la sua sorte fu molto più tragica di quella dei reclusi di Ferramonti. Il rabbino fu arrestato e deportato ad Auschwitz dove morì. Ai prigionieri ebrei fece visita anche Israel Kalk, un ebreo lettone che a Milano aveva dato vita all’organizzazione per l’infanzia «Mensa dei bambini», e che portò consistenti aiuti umanitari. È soprattutto grazie a Kalk se oggi abbiamo molte informazioni sulla vita degli internati di Ferramonti. La svolta avvenne in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943 con il frettoloso abbandono di Ferramonti da parte del comando italiano. Si narra che i tedeschi in ritirata passarono vicino all’insediamento. Qualcuno del Campo pensò di issare una bandiera gialla all’ingresso. E padre Lopinot convinse i nazisti a tenersi alla larga, raccontando loro che a Ferramonti stava infuriando un’epidemia di tifo. Il 14 settembre 1943 arrivarono gli Alleati. Le truppe inglesi trasformarono il campo di concentramento in un campo profughi, gestito dagli ormai ex internati. Ferramonti fu chiuso alla fine del 1945. Oggi rimangono alcune tracce di quell’esperienza rivoluzionaria, testimoniata dal «Museo internazionale della memoria di Ferramonti di Tarsia», un monumento alla resilienza di 3 mila fra ebrei, cattolici e greco-ortodossi che, sulla speranza in una società cosmopolita, costruirono insieme un solido argine contro la barbarie del nazifascismo.
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