«Riflesso nei tuoi occhi sono bello anch’io»

Le scritte cha compaiono sui muri delle nostre città sono a volte vere e proprie perle di saggezza. Sembrano parole buttate lì a caso, ma invece aprono mondi e raccontano tanto di chi le ha scritte e anche di noi che le leggiamo.
26 Gennaio 2025 | di

Nel mese di gennaio del 2018 mi trovavo in Sicilia per un convegno organizzato dalla mia Università insieme a quella di Catania, nella splendida sede che era, a suo tempo, un monastero benedettino. Dovevo tenere l’intervento finale di sintesi alla presenza anche del ministro degli Affari Sociali. La mattina dell’intervento mi alzo, come mio solito, prima che faccia giorno, ed esco per fare una passeggiata verso il mare. Ed è qui che mi imbatto in una scritta sul muro che mi sorprende e che mi accompagna ormai da diversi anni: «Riflesso nei tuoi occhi sono bello anch’io». La trascrivo immediatamente nel taccuino che porto sempre nella tasca della giacca. Nei giorni seguenti ci rifletto su. Ci si riconosce soltanto nello sguardo dell’altro. Ci percepiamo guardando l’altro e attraverso lo sguardo dell’altro. Tutto il contrario del bellissimo Narciso, celebre personaggio della mitologia greca, che, a seguito di una punizione divina, s’innamora della sua stessa immagine riflessa in uno specchio d’acqua e muore proprio cadendo nel lago in cui si specchiava. 

Soltanto in relazione a un «tu», al volto dell’altro, ci umanizziamo pienamente; è lo sguardo di nostra madre che ci fa vivere e che ci trasmette il gusto per la vita; è la voce calda e rassicurante di nostro padre che ci incoraggia alla vita. Appena nati, il nostro bisogno più viscerale, la nostra fame più pressante è quella di riconoscimento. Esistiamo attraverso lo sguardo amoroso dei nostri genitori e di chi si prende cura di noi. Non si diventa uomini completi da soli, per quanto nell’attuale situazione sociale e culturale si inneggi al mito dell’indipendenza con conseguenze spesso devastanti per la nostra vita affettiva e relazionale. Oggi l’isolamento è una delle fonti più grandi di sofferenza umana; viviamo in contesti sociali sempre più popolati da persone solitarie che cercano disperatamente di amarsi senza riuscirci. Seduti in treno o in metropolitana siamo circondati da individui silenziosi, assorti nelle loro fantasie personali o nascosti dietro lo schermo di un cellulare o di un computer, sempre connessi e quasi mai comunicanti. Viviamo soffocati da chiacchiere senza senso e sapore, da facili confessioni e discorsi vuoti, da complimenti superficiali e confidenze noiose, bramosi di penetrare in maniera morbosa e voyeuristica nei recessi più segreti della vita degli altri, finendo per confondere l’illusione dell’intimità con la curiosità gretta e spersonalizzante. 

In questa società liquida in cui le relazioni sono sempre più fragili e frammentate, viviamo come naufraghi che si attaccano a «una zattera di carta assorbente», secondo un’efficace metafora di Zygmunt Bauman, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di eccitante, che ci dia la sensazione di essere vivi. Ma per essere vivi, oltre che per sentirsi vivi, bisogna imparare l’arte di amare, fare la fatica di andare oltre le richieste tiranniche del nostro ego, per costruire relazioni nutrienti e significative (Cfr. S. Olianti – A. Jacopozzi, Lo sguardo dell’altro, EMP). E noi, invece, spesso che cosa facciamo? Trascorriamo il tempo e spendiamo le nostre energie a celebrare il nostro ombelico, come fosse il centro del mondo, per poi lamentarci, ovviamente, con Dio e tutti gli altri che siamo soli e non amati. Assistiamo a un vero culto dell’ego che ci sprofonda, senza che ce ne accorgiamo, verso forme più o meno evidenti di narcisismo e di solitudine. Il pianeta più esplorato del mondo è il proprio ego, con le sue pretese, le paturnie e le velleità. 

L’intenzione di per sé contiene elementi positivi: star bene e vivere una vita più serena e armoniosa. Siccome, però, siamo messi maluccio da questo punto di vista, allora si pensa che concentrandosi maggiormente sul proprio ombelico si dovrebbe stare meglio. In realtà non funziona così, perché la porta della felicità si apre soltanto verso l’esterno e chi tenta di forzarla verso l’interno la chiude ancora di più. Dobbiamo, invece, imparare ad alzare lo sguardo dal nostro celebrato ombelico e cercare l’altro, aprirci all’altro, per lasciarci stupire e incantare dalla bellezza dell’incontro. Insomma, dobbiamo imparare a coltivare noi stessi senza essere egoisti né incrementare il nostro narcisismo: è una delle sfide più appassionanti della vita. 

Ma come si fa? Se nello sguardo dell’altro percepiamo la nostra bellezza è anche nel nostro sguardo che l’altro può percepire la sua bellezza. Affinare lo sguardo e rivolgere lo sguardo, tendere la mano, donare e donarci. Soltanto così la vita può cominciare a fluire e a fiorire. Al contrario, l’egoista, il narcisista, chi pensa solo a se stesso, si condanna a una vita di solitudine profonda e di infelicità: non si sta bene accanto a un egoista, a un tirchio, a un prepotente. Vicino a una persona che vuol bene a se stesso, invece, stiamo bene: ci sentiamo accettati per come siamo, perché anche l’altro ha imparato ad accettarsi. Chi vuol bene a se stesso sa che non può essere felice da solo, staccato dagli altri e a spese degli altri.

Sì, lo sguardo può fare di noi esseri aperti alla vita oppure individui interamente ripiegati su noi stessi. Dipende da come guardiamo, dallo sguardo, appunto, che posiamo sull’altro, dalla cura che mettiamo in ogni parola, in ogni gesto, in ogni relazione. È il nostro sguardo che fa vivere l’altro o che lo nasconde; è lo sguardo dell’altro che ci chiama a rispondere della nostra umanità e che ci vivifica. È lo sguardo che ci rende pienamente umani e il volto dell’altro riflette tutta la nostra bellezza, manifestando, anche attraverso le pieghe e le rughe della nostra fragilità, la traccia del divino.

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Data di aggiornamento: 26 Gennaio 2025
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