Khalida Toumi, leader per sempre
L’Algeria è lo Stato più grande dell’Africa, ha immense riserve di idrocarburi e qualcosa che nell’area mediorientale è più unico che raro: milleduecento chilometri di sbocco diretto sul Mediterraneo. Questi dati basterebbero a capire che si tratta di un Paese che ha tante potenzialità quante contraddizioni. A un’ora e mezza di volo da Roma, il mondo algerino appare come uno Stato moderno che ha pagato la sua laicità al prezzo carissimo di dieci anni di terrorismo di matrice fondamentalista.
A giudicarlo dai cantieri pubblici sembrerebbe in pieno sviluppo. Lungo l’arteria che dall’aeroporto conduce al centro di Algeri ci sono chilometri infiniti di lavori in corso, tra cui quelli monumentali della moschea Djamaa El Djazair, più prosaicamente detta moschea Bouteflika, il presidente in carica il cui volto spicca gigantesco sullo scheletro del minareto di quella che sarà il terzo tempio islamico più grande al mondo. Nella direzione opposta c’è però anche la casba, il quartiere storico che affaccia sul porto, annichilito da centotrent’anni di occupazione coloniale francese e segnato da una povertà e un degrado urbano che fanno a pugni con i proclami governativi di rinascita e sviluppo.
L’idea di incontrare Khalida Toumi mi è stata data proprio tra quei vicoli, con poche parole al telefono per dirle chi sono e cosa cerco: una persona che mi sappia spiegare un po’ di più di questo mondo complicato, qualcuno consapevole del proprio Paese.Mi riceve quello stesso pomeriggio in una casa modesta, molto diversa da quella in cui mi aspettavo abitasse una donna che è stata ministra della cultura algerina per dodici anni. Anche lei non è come l’avevo immaginata: fulva, priva del velo onnipresente sul capo delle algerine, fuma e indossa leggings e maglione a vestire 58 anni portati bene, ma senza vanità. Quando mi versa il tè alla menta devo fare uno sforzo per ricordarmi che quella signora compita è stata una politica militante e una combattente negli anni durissimi del terrorismo fondamentalista.
Quando comincia a parlare però lo sforzo non mi serve più: la leader che Khalida Toumi è stata è ancora lì e la sua voce è ferma quanto l’analisi storica che mi offre. Le chiedo della religione, di cosa pensa del mondo diviso tra islam e occidente, ed è perentoria: «Le religioni non dividono il mondo: è la lotta di potere che lo divide, ma le religioni in questa lotta possono essere usate come armi, se non lo impediscono». Guardandola mi sorprendo a pensare che non sia credente, ma è un pregiudizio: il numero di donne col velo è così alto in Algeria che è facile cadere nella trappola di supporre che una donna che non lo porta sia poco devota. Invece – come altrove in Medioriente, come ovunque – i simboli sono spesso convenzioni sociali, più che indicazioni di uno status di fede. Dopotutto, col velo o no, sono state le donne qui a difendere la laicità del Paese negli anni ’90, quando i fondamentalisti islamici hanno cercato di instaurare una teocrazia col terrore di duecentomila morti ammazzati.
«Gli uomini non ce l’avrebbero fatta da soli a vincere quella battaglia decennale, perché la nostra motivazione era più forte: in un governo teocratico loro avrebbero mantenuto comunque un po’ di libertà, ma noi nessuna. Per questo i gesti di terrorismo riguardavano soprattutto le donne: in questo Paese se controlli le donne controlli tutti». Vorrei dirle che è così dappertutto e che quello che dice della sua cultura mi conferma quello che già so della mia: le società patriarcali sono sempre matricentriche e il matricentrismo, erroneamente confuso col matriarcato, richiede che la donna sia partecipe del proprio ruolo e lo confermi. Ogni sistema patriarcale comincia dalle donne e, se anche all’inizio lo fa con la violenza, in quelli più evoluti non è nemmeno più l’uomo a dettare le regole per la sottomissione femminile. Sono le donne stesse che la reggono, educando figli e figlie con parametri diversi e giudicandosi a vicenda da comportamenti e centimetri di pelle scoperta. Le donne algerine negli anni ’90 sono state capaci di resistere al primo passo di questo processo sociale degenerativo a costo della vita propria e dei figli, sfidando i divieti e anche il giudizio delle donne dei fondamentalisti, violente quanto i loro compagni nella pretesa di imporre a tutte la sharia.
Mentre parliamo passano in soggiorno due bambine dai capelli rossi, le nipotine di Khalida, ed è solo quando si posa su di loro che il suo sguardo perde l’ombra dolente che durante la nostra conversazione non l’ha mai lasciato. È in nome loro che mi ripete «siamo state forti e unite, abbiamo vinto, ce l’abbiamo fatta», ma la sua è la voce della sopravvissuta che ha seppellito amiche e compagne in una guerra in cui l’Algeria è stata lasciata completamente sola dalla comunità internazionale: quando vinci a quelle condizioni hai perso comunque troppo. Prima di salutarmi torna cupa. «Abbiamo Daesh (l’Isis nel mondo francofono si chiama così, ndr) che preme su ognuno dei nostri confini. Sento che prima di morire rischio di vedere un’altra guerra». Vorrei smentirla, ma ho la sua stessa paura e, mentre lascio la sua casa, mi vergogno dell’Europa che ha trattato la sofferenza degli algerini e delle algerine di vent’anni fa come cosa estranea, che non ci riguardava. Se avessimo sentito più nostra la loro battaglia di libertà contro il terrorismo fondamentalista, oggi quel terrore forse non sarebbe alle nostre porte, così assurdo e così orribilmente già visto.