Se il tempo esce fuori dai cardini
Sarà colpa del pregiudizio che vuole gli storici dell’arte come compassati signori dalla parlata didascalica, ma la dottoressa Cristiana Collu – 48 anni in blue-jeans, zazzera bionda e fisico da ragazzina senza un filo di trucco – non è esattamente come ti aspetti che sia la direttrice del più importante museo d’arte moderna d’Italia.
Lo guida da appena un anno e mezzo, ma le sue scelte di riorganizzazione della collezione hanno già raddoppiato il numero dei visitatori, che nel 2016 sono passati da ventotto a cinquantacinque mila. Il merito è di una sua idea che si chiama Time is out of joint, letteralmente «il tempo è uscito fuori dai cardini».
Una citazione shakespeariana dell’Amleto che sintetizza la filosofia con cui il grande patrimonio della Galleria Nazionale d’Arte Moderna (circa cinquecento opere) è stato tirato fuori dalla griglia cronologica in cui era stato per anni ed è stato ricombinato secondo un altro criterio, non senza uno strascico di prevedibili polemiche tra gli esperti.
Delle polemiche però Cristiana Collu non ha mai avuto paura, anche perché per le sue scelte parla forte il suo lavoro. Quando vinse il concorso per la direzione del Museo d’Arte Moderna di Nuoro aveva solo 29 anni: gliene sono bastati dieci per trasformare quella che era una semplice pinacoteca provinciale in uno spazio magnetico di respiro europeo, con mostre d’alto profilo impossibili da vedere altrove.
Quando lasciò la direzione del Museo d’Arte Moderna di Trento e Rovereto in polemica con le scarse risorse stanziate per sostenerlo, l’insolito calore con cui i collaboratori la salutarono divenne notizia sul giornale: «Niente di strano – dissero ai giornalisti i ricercatori e lo staff del Mart –. Collu ha saputo alzare l’asticella delle nostre ambizioni, ci ha impresso entusiasmo, ci ha garantito rispetto e condivisione».
Alzare l’asticella delle ambizioni sue e degli altri sembra essere il suo marchio di fabbrica, ma qual è il prezzo che si paga quando si toccano gli equilibri di un mondo così chiuso e codificato come quello dell’arte e della sua gestione istituzionale? Questa domanda non c’è nemmeno bisogno di fargliela: basta guardarla per capire che allo sforzo contro l’inerzia conservatrice che fanno tutti i veri innovatori, Cristiana Collu aveva da aggiungere anche la complicazione di essere donna in un mondo molto maschile, dove per vederti riconosciuta la stessa autorevolezza di un collega devi aver pubblicato il doppio, diretto il triplo ed essere apparsa in pubblico non più della metà del tempo.
Anche per questa stratificazione di passione e lotta professionale girare con lei per le sale della Galleria è un’esperienza duplice, dell’arte e di lei. Sorride tanto, ma in ogni lampo d’avorio ci sono amore per l’arte e determinazione nella stessa misura. Mentre mi mostra il modo in cui le epoche delle opere sono state mischiate per dare risalto all’evoluzione delle idee che esprimono, non posso negare che l’impatto emotivo sia effettivamente detonante rispetto a qualunque altro museo d’arte contemporanea io abbia mai visto.
Nella stessa stanza c’è una grande tela di Angiolo Tommasi del 1896 intitolata Gli emigranti e di fronte, in un dialogo muto attraverso i secoli, una video installazione del 2007 di Adrian Paci – Centro di permanenza temporaneo – mostra i migranti odierni in fila sulla scaletta per entrare in un aereo che non c’è, sospesi in aria verso una meta che non raggiungeranno mai.
Lo stesso scarto avviene nella sala che ospita i grandi quadri risorgimentali sulla guerra, carichi di talento e retorica nella stessa proporzione, intrisi di senso epico e culto dell’eroe. Li osserva severa un’altra video installazione contemporanea, con una scena rallentata che cita esplicitamente il celebre dipinto La Libertà che guida il popolo, solo che la libertà del video inciampa sul campo di battaglia e viene calpestata e contusa insieme alla bandiera francese, proprio dalla folla inferocita che sembrava guidare alla rivolta.
Questo dialogo ideale non è contemporaneo solo perché avviene nello stesso momento nella stessa stanza dello stesso museo, ma soprattutto perché trasforma l’arte in qualcosa che pone questioni per l’oggi, al di là dell’ammirazione e della pedagogia estetica suscitata da ciascuna opera.
Vedere l’arte così emoziona anche chi possiede meno strumenti per leggerla e costringe tutti al pensiero complesso, una cosa che la catalogazione antologica delle opere non permetteva di fare con la stessa immediatezza.
Non stupisce che i visitatori abbiano premiato questa scelta e non stupisce neppure la reazione scandalizzata degli studiosi detrattori, a loro dire spaventati dall’idea che l’arte possa essere spettacolarizzata e trasformata in qualcosa che parla «alla pancia», ma più probabilmente terrorizzati dall’idea che un’arte offerta così possa avere molto meno bisogno della loro mediazione per arrivare al pubblico.
Cristiana Collu questo non lo dice e forse neppure lo pensa: è studiosa troppo seria per cedere allo sport nazionale della denigrazione dell’intellettuale. Però il suo modo di essere studiosa si declina su un piano che in altri tempi si sarebbe detto «gramsciano»: le sue scelte sono evidentemente dirette ad accorciare la distanza che corre tra l’elemento intellettuale e quello popolare.
Qualunque sia il parere degli esperti, la fila di giovani e famiglie con bambini che ogni giorno risale la grande scalinata del palazzo della Galleria le dà ragione.