Ciao Italia!
Yves Montand (Ivo Livi), Serge Reggiani, Lino Ventura, le famiglie Bugatti, Ponticelli e Pigozzi. Sono solo alcuni dei protagonisti – forse i più famosi – di un’epopea leggendaria: quella dell’emigrazione italiana in Francia, dal 1860 al 1960, che il Paese transalpino celebra con la mostra «Ciao Italia!», curata da Dominique Païni, Isabelle Renard e Stéphane Mourlane, allestita fino al 10 Settembre al Museo Nazionale della Storia dell’Immigrazione, al Palais de la Porte Dorée di Parigi.
Che in tempi remoti il mondo latino abbia contribuito a «contaminare» i romani e i galli, o gallo-romani, è un dato storico inoppugnabile. E, probabilmente, con nessun altro popolo euro-mediterraneo si è stabilita una familiarità «genetica», culturale, identitaria così forte come quella tra italiani e francesi; consolidatasi nel tempo grazie anche a personalità della caratura dei Medici, di Leonardo Da Vinci, Mazzarino, Lully, Carlo Goldoni, e di molti altri fra scienziati, filosofi, pittori, intellettuali, banchieri che, pur vantando italici natali, hanno poi concorso a scrivere pagine memorabili della storia di Francia.
Senza contare le secolari affinità elettive che hanno intrecciato i destini della terra dei franchi e quelli della Repubblica di Venezia, nonostante il «tradimento» imputato a Napoleone che, a Campoformido, la cedette agli austriaci.
A fare un consuntivo, questa cuginanza ha arricchito, alla fine, soprattutto i francesi. Ed è sembrata a lungo così naturale che almeno fino all’unità d’Italia, nel 1861, vere e proprie barriere «ideologiche» tra i due paesi non ce ne sono mai state. Solo nella seconda parte dell’Ottocento, qualcosa si «rompe». Non erano più le élite a giungere in Francia, ma masse di manovalanza provenienti soprattutto dal nord Italia in cerca di una migliore prospettiva di vita che il neonato Regno d’Italia non era in grado di offrire. Oltralpe, infatti, mancava la manodopera.
Tuttavia il concetto di integrazione non era ancora nato. E così iniziarono a montare la xenofobia, il pregiudizio, lo scherno, l’emarginazione. Sfociati, purtroppo, in casi estremi, nella violenza. Fino a provocare morti e feriti non lontano da Montpellier, ad Aigues-Mortes che, nell’agosto del 1893, fu teatro di un tragico e sanguinoso scontro tra lavoratori francesi e italiani.
Ma il fenomeno dell’emigrazione italiana non si fermò, anzi procedette fin dopo il secondo conflitto mondiale con l’inclinazione, da parte di taluni, a francesizzare nomi e cognomi, o addirittura a mascherarli, un po’ come era avvenuto anche per gli italiani approdati in nord America in cerca di fortuna.
Gli italiani in Francia sono stati imprenditori, artigiani, commercianti. Non solo manovali, contadini e ambulanti. Si sono raggruppati nelle loro «piccole Italie» di quartiere, aperte, permeabili, dove sono stati custoditi e perpetuati gli umori, le tradizioni, e anche la nostalgia della terra avita. I loro figli, nipoti e pronipoti hanno colto le opportunità giuste, e sono riusciti a salire i gradini della scala sociale entrando all’Università come docenti, diventando imprenditori di successo, o esponenti politici autorevoli; insomma ricambiando l’amore di una patria adottiva.
Non dobbiamo mai scordarci che la Francia è stata un riparo e un baluardo per chi fuggiva dal fascismo, e uno degli incubatori della futura Repubblica italiana. Così i nostri espatriati hanno costituito, per molti decenni, la comunità straniera più numerosa del Paese.
Ma cosa è rimasto di quella epopea? La mostra di Parigi la analizza o la racconta con documenti d’archivio, foto, opere d’arte, audiovisivi, approfondimenti storici e culturali che confermano come tale presenza abbia lasciato segni profondi, tangibili e, in alcuni casi, irreversibili. Nel modo di vivere, nell’eleganza, nelle arti, nella cultura, nell’innovazione scientifica e tecnologica, nella cucina. La «ruvidezza gallica» si è stemperata nell’«estro mediterraneo».
Il successo dei film di Fellini e della sua Dolce Vita hanno sdoganato definitivamente l’immagine e la percezione degli italiani in Francia. Non eravamo più una minaccia; forse, a volte, un po’ troppo esuberanti e indisciplinati, questo sì, come certi simpatici cugini scavezzacollo protagonisti di noiose estati in famiglia. Invidiati e biasimati, ma in fondo amati per la loro inesauribile vitalità.