C’è tutta Mariapia Veladiano in questo suo nuovo romanzo da poche settimane in libreria: Quel che ci tiene vivi, Guanda editore. C’è il dolore, che non è mai arido e ripiegato su se stesso, ma umanizzante e generativo perché accolto e curato. C’è la diversità, che diviene acuta consapevolezza di destini unici che però sanno unire invece che dividere. C’è il tema del rifiuto, che trova rispettosa comprensione, perché sempre frutto doloroso di un male antico.
Le grandi dimissioni non sono che una delle manifestazioni di disagio che colpiscono da decenni il mondo del lavoro dell’Italia. Capire la natura di questi disagi è un buon inizio per voltare pagina.
Vedere non è scontato, è un’educazione ad accogliere tutta la realtà, a non permettere agli occhi di scappare distratti. A cercare la vita, e quindi Dio, ovunque.
Dovremmo ricominciare a chiamarla per nome: morte, semplicemente, e non scomparsa, dipartita, sonno eterno… Perché solo ricominciando a chiamarla per nome potremo sentirla parte ineludibile della nostra vita, presenza reale con la quale tutti siamo chiamati a confrontarci prima o poi e che, paradossalmente, è quell’apice dell’esistenza umana capace di dare senso e valore ai nostri giorni.
Nella Germania nazista un docente di letteratura, autore di un racconto sull’uccisione «pietosa», cede alle lusinghe dei burocrati e redige un trattato scientifico. È la vicenda al centro del film «Good».