Vedere non è scontato, è un’educazione ad accogliere tutta la realtà, a non permettere agli occhi di scappare distratti. A cercare la vita, e quindi Dio, ovunque.
Dovremmo ricominciare a chiamarla per nome: morte, semplicemente, e non scomparsa, dipartita, sonno eterno… Perché solo ricominciando a chiamarla per nome potremo sentirla parte ineludibile della nostra vita, presenza reale con la quale tutti siamo chiamati a confrontarci prima o poi e che, paradossalmente, è quell’apice dell’esistenza umana capace di dare senso e valore ai nostri giorni.
Nella Germania nazista un docente di letteratura, autore di un racconto sull’uccisione «pietosa», cede alle lusinghe dei burocrati e redige un trattato scientifico. È la vicenda al centro del film «Good».
La resilienza aiuta a vivere bene, nonostante i traumi, i dolori, i lutti. A colloquio con lo psichiatra e psicoterapeuta Antonio D’Ambrosio, autore del volume «Educare alla resilienza».
Riuscire a parlare di morte, parlando di vita. Non è facile, eppure lui ci riesce magnificamente. Il lui in questione è padre Guidalberto Bormolini, antropologo, tanatologo, nonché religioso dei Ricostruttori nella preghiera, un ordine relativamente recente (nato negli anni ’80 del secolo scorso, a opera del gesuita Gian Vittorio Cappelletto), che fa della «ricostruzione» (esteriore: casali e vecchie abbazie abbandonate; e interiore: l’unità tra corpo, mente e spirito) il suo specifico.