Il cambiamento è vita
Ode al cambiamento. Per noi cristiani la parola in origine era conversione. L’abbiamo amata nei secoli, ma dopo la consapevolezza acutissima e dolente dei disastri di un colonialismo missionario di cui ancora non siamo del tutto consci per dimensioni e profondità, non la usiamo più con innocenza. Nel linguaggio corrente ha solo significati alquanto laici e, come dire, prosaici: «convertire un file da un formato a un altro», nel linguaggio informatico, o «convertire un decreto legge», nella lingua ormai urticante della politica, e così via. Mentre, in senso religioso, la parola è quasi inquietante ormai. Se un figlio una sera entra a casa e ci dice seriamente: «Mi sono convertito» ci prendiamo un bello spavento. E a che cosa? A qualche setta? Un fondamentalismo che ce lo porta lontano? Per cui va bene, possiamo chiamarlo cambiamento, cambiamento radicale, trasformazione della nostra vita. Naturalmente uno può obiettare che non c’è nessun bisogno di cambiare, che la sua vita è felice quel che basta e che le convinzioni che la guidano sono salde e sicure.
Nel corso di una recente serata molto partecipata, in cui una dottoressa, volontaria di un’organizzazione religiosa attiva in zone poverissime di vari Paesi africani, era stata chiamata a testimoniare il proprio lavoro, davvero importante e al confine dell’impossibile per le condizioni di vita, una persona del pubblico ha chiesto: «A lei che cosa ha dato l’incontro con queste situazioni estreme? Che cosa le hanno regalato gli incontri con le persone dei Paesi in cui ha lavorato?». Al che lei ha risposto, dopo un bel silenzio e un certo imbarazzo: «Veramente io sono andata a dare. Dare aiuto, a testimoniare la fede. Non c’è niente da imparare lì». «Lì» è la misura della distanza. La separazione. Eravamo in chiesa. E ci siamo guardati. Molti erano missionari, anziani e tornati dalle loro missioni con un carico di umanità dolente, miracolata e no, in gran parte rimasta dolente, perché il miracolo non riguarda tutti e non sappiamo perché. Ecco. Eppure cambiare è vivere.
È cambiato anche Gesù, oggi gli esegeti lo dicono senza tentennamenti, tranquillamente. Era convinto di essere venuto per gli ebrei e grazie ad alcuni incontri meravigliosi, tra cui quello con la donna cananea, sicuramente pagana, ha cambiato idea e ha capito di essere venuto per tutti, tutti. È cambiato Pietro, già chiamato, già accomodato nella fede nel Signore, eppure traditore dell’ultima più importante ora del suo Messia, e poi di nuovo testimone e martire.
Cambiare è la cifra dell’essere cristiani. Se le persone che incontravano Gesù non fossero cambiate nel senso pieno del termine, cioè non avessero cambiato pensiero e decisioni sulla propria vita, la storia che conosciamo non esisterebbe. Ma cambiare è la cifra anche dell’essere persone, campioni della nostra unica comune umanità. Si cambia perché c’è un incontro, che a volte diventa una grazia, grazie al quale scopro che non posso più vivere così. Perché scopriamo qualcosa di noi che non sapevamo. Perché il nostro corpo cambia. Perché incontriamo un libro che ci regala uno sguardo dal basso e tutto appare diverso. Perché leggiamo un Vangelo che ci trasforma nel profondo. Ezechiele 37, le nostre ossa prendono vita. «Piega ciò che è rigido», preghiamo nella sequenza dello Spirito Santo. Piegaci ad amare ogni giorno in modo nuovo, perché sono nuovi gli incontri e le persone. E così, ultimo dei doni dello Spirito, possiamo chiedere, serenamente: «Dona gioia eterna».
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