Le relazioni restano, la morte non le spezza
Marina Sozzi è una tanatologa, ovvero una persona che studia e ragiona sul tema difficilissimo della morte. Per dirla con le sue stesse parole, si occupa di capire come gli uomini si rappresentano, temono, sfidano o accettano il proprio morire; e come piangono, seppelliscono, ricordano e onorano i propri morti. Questa donna, convinta che studiare la morte sia un modo eccellente per guardare alle nostre società contemporanee e a quelle del passato, mi è capitato di incontrarla come docente diversi anni fa a Torino, probabilmente l’unica città d’Italia dove può sembrare una cosa normale non solo che esista un corso di preparazione alla morte, ma che qualcuno ci si possa iscrivere anche se non sta morendo.
Le persone che si trovavano con me nella sala dove Marina Sozzi teneva lezione erano lì in particolare per sentir parlare di rituali di commiato, i cosiddetti funerali laici richiesti dalle persone senza fede religiosa. Marina ha infatti costruito, tra le altre cose, anche il rito civile per le inumazioni che attualmente è in uso nella città di Torino. In questi anni il suo straordinario percorso di studiosa e di pedagoga della fine umana l’ha portata a scrivere molti testi divulgativi sul tema dell’addio, ma nessuno di essi è efficace come una chiacchierata con questa radiosa cinquantenne. Nei suoi occhi azzurri non brilla alcuna luce ideologica ed è per questo che con lei ci si ritrova a parlare serenamente anche di temi scottanti come il lutto, la malattia terminale, la soglia accettabile del dolore e il testamento biologico, al di là di ogni convinzione etica o religiosa. «In aree urbane e secolarizzate – e mentre me lo dice io so che è vero anche in molte piccole realtà rurali – spesso ai riti funebri ci sono persone che non frequentano la Messa e non si riconoscono nel rito cattolico. Occorrono alternative, ma chi le predispone? Dovrebbe essere accessibile a tutti la celebrazione di un rito laico, che metta al centro la vita del defunto e il suo lascito affettivo, culturale, etico».
Grazie al lavoro di persone come Marina, in tutta Italia stanno sorgendo sale del commiato multiculturali, adatte a ospitare funerali laici o di altre religioni, ma non basta approntare uno spazio. Il dolore della morte ci interroga tutti e anche a chi non ha il dono della fede serve un linguaggio simbolico che permetta di onorare il defunto, consolare i vivi e riaffermare che la vita della comunità continua nonostante la ferita inferta dalla morte.
Marina non ha cominciato a occuparsi di morte per caso. Le è stato diagnosticato un tumore giovanile e il periodo della sua cura si è rivelato per lei un tempo preziosissimo per indagare in prima persona e provare a comprendere quello che resta ancora il tabù più forte della nostra modernità. Ne è nata la consapevolezza dell’assenza pressoché completa di spazi dove le persone possano vivere la morte e il lutto con dignità, tornando a dargli un senso alto. L’interesse intorno al tema è molto più diffuso di quanto si possa credere. Il blog di Marina – che si chiama «Si può dire morte» e tratta di tutte le sfumature dell’argomento – è frequentatissimo e i suoi incontri territoriali sui temi collegati alla fine della vita lo sono altrettanto.
Molte di queste riflessioni sono confluite nel suo libro Sia fatta la mia volontà (Chiarelettere), tra le cui pagine si prova a immaginare di spiegare la morte ai bambini, analizzare il ruolo che possono avere la musica e l’arte nell’accompagnare la fine della vita, investigare il ritardo italiano nelle cure palliative, osservare come le altre culture amministrano il dolore per l’assenza dei loro cari e soprattutto affrontare la paura più profonda dell’essere umano: che se non si riesce a dare senso alla fine della vita, possa essere la vita stessa, alla fine, a non avere avuto senso. Marina è ben consapevole di questa paura, identica nel tempo e in tutte le culture. «Ogni società ha studiato le sue strategie per reagire alla ferita inferta dalla morte. Però quella occidentale moderna, volta all’oblio e alla dilazione, è perdente e inefficace: non abbiamo forse mai avuto così paura della morte. Pensa ai bambini di oggi: non vengono più portati a vedere i nonni morenti o morti, con la convinzione che ne rimarrebbero sconvolti. Il risultato è che i nostri figli, crescono con la convinzione che la morte succeda sempre agli altri, totalmente impreparati ad affrontarla».
L’idea di prepararsi ad affrontare la morte mi ricorda una preghiera che spesso sentivo fare dagli anziani del mio paese e di cui non avevo mai compreso il significato: chiedevano a Dio di risparmiarli dalla morte improvvisa o inconsapevole. Da giovanissima quella mi sembrava una richiesta assurda: quale migliore morte ci si poteva augurare di quella nel sonno o comunque il più possibile rapida e indolore? La saggezza dei vecchi però spesso la si capisce dopo e solo oggi, grazie anche al lavoro di persone come Marina, ho imparato che avevano ragione loro: anche l’addio tra vivi ha bisogno dei suoi rituali e le morti improvvise ce li negano, lasciandoci traumatizzati dalla perdita e incapaci di darle significato. Il tempo della morte vigile è benedetto perché ci insegna a ritessere i legami forti e permette di preparare noi stessi e i nostri cari all’ultimo commiato, arrivando alla fine con dignità e valore. L’abisso della morte, come ci insegnano gli addii dei patriarchi biblici, smette di fare paura solo quando diventa spazio di relazione.
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