Ho paura di vivere
Sappiamo di essere mortali e questa consapevolezza ci sfiora per tutta al vita, spesso accompagnata da paura e da una sottile e strisciante angoscia che possono paralizzare il cammino e il desiderio di vivere. Per quanto ci sforziamo di dimenticare o di rimuovere la morte, questa non si dimentica di noi e dobbiamo imparare a farci i conti, anche se non ci piace. La rimozione non funziona: prima o poi quello che tentiamo di rimuovere torna a galla, sotto forma di ansia e di inquietudine. Anche i nostri animali muoiono, ma non diremmo mai che un cane è mortale; solo l’uomo è mortale perché sa di dover morire.
Non c’è dubbio che la cultura occidentale abbia rimosso il pensiero della morte: «Parlare di morte fa ridere d’un riso forzato e osceno. Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: il sesso è legale, solo la morte è pornografica» (J. Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, p. 204). Nonostante i progressi della medicina, noi occidentali sappiamo di poter contare all’incirca su trentamila giorni: la vita, dunque, è un segmento limitato di giorni che ci è donato per imparare a vivere e a morire. E questo circuito chiuso ci spinge a cercare una direzione, a trovare un significato, perché la nostra vita non scorra a nostra insaputa.
Non c’è cura per la nostra mortalità e arrivare a comprendere nel profondo che la vita e la morte sono due aspetti inseparabili, credo sia il culmine della saggezza. È la tragica grandezza dell’essere umano, la consapevolezza della sua mortalità; non abbiamo chiesto di venire al mondo e ci scoccia parecchio doverlo lasciare. Ogni giorno che ci è dato di vivere è davvero un regalo; il fatto è che quando stiamo bene non ci accorgiamo di quanto sia bello vivere e quanto sia meravigliosa la vita (S. Olianti, Di fronte alla morte impara la vita, EMP, p.35). Diventare consapevoli della nostra mortalità è quindi un esercizio indispensabile per imparare davvero a vivere e a godersi il viaggio meraviglioso della vita: di fronte alla morte, impariamo, dunque, la vita. Io ho imparato molto della vita accompagnando a morire tante persone, alcune per me molto care e vicine al mio cuore. In questi frangenti dolorosi e luminosi al contempo, ho vissuto nella mia carne tante volte un verso della splendida sequenza liturgica del giorno di Pasqua: Mors et vita duello conflixere mirando; la morte e la vita si sono affrontate in un prodigioso duello.
Imparare la vita significa, per me, imparare la speranza, respirare la speranza che la vita è sempre degna di essere vissuta, che non è una passione inutile e che la morte è solo parola penultima. (S. Olianti, cit, p. 25). Chiunque, per mestiere, per scelta o per necessità, abbia avuto la possibilità di accompagnare un morente e di addolcirne la morte con la sua premurosa vicinanza, ha fatto l’impagabile esperienza di quanto questo arricchisca la fiducia e la voglia di vivere: «Dopo aver assistito gli infermi nei loro ultimi istanti, la mia fiducia nella vita non ha fatto che crescere. Vivo senza dubbio più intensamente, con maggiore coscienza, ciò che mi è dato di vivere, gioie e dolori, ma anche tutte le piccole cose quotidiane, ovvie, come il semplice fatto di respirare e di camminare» (M. de Hennezel, La morte amica. Lezioni di vita da chi sta per morire, Rizzoli, p.14).
C’è molto dolore nella vita, un dolore che si insinua strisciando nelle pieghe più recondite del nostro essere. La filosofia nasce in Occidente per rispondere alle domande che accompagnano ogni essere umano: perché siamo invece che non essere, da dove veniamo, perché dobbiamo morire, che senso ha la vita? Il Buddha, in Oriente, ha cercato una via per comprendere la sofferenza e l’Ottuplice Nobile Sentiero vuole indicare una strada per la cessazione della sofferenza. Gesù, che non era un filosofo, non spiega la sofferenza, non ci dà una chiave per risolvere il dolore: lo vive, lo prova, lo sperimenta nella sua carne, fino a sudare sangue nell’orto del Getsemani (Lc 22,44). La morte è la madre di tutte le paure e Gesù di fronte alla sua morte ha provato angoscia, come tutti noi. Questo me lo fa sentire ancora più vicino. Un Dio così veramente umano da non sottrarsi alla paura più grande che prova ogni essere umano, pur consapevole che sarebbe risorto, mi si fa compagno nel cammino tortuoso della vita e, come ai discepoli di Emmaus (Lc 24,15), infonde speranza al mio cuore smarrito.
Credo che la paura della morte sia tanto più grande quanto più forte è la paura di vivere. La morte dovrebbe sorprenderci da vivi. Le persone che hanno vissuto tutta la vita al risparmio, senza rischi, senza crisi, con pochi slanci ed entusiasmi e con la sensazione radicata di non aver vissuto pienamente, sono quelle che più hanno paura della morte e che fanno più fatica ad accettarla. Condivido quanto scrive lo psichiatra Yalom: «La mia esperienza, sia professionale sia personale, mi ha portato a ritenere che la paura della morte è sempre più forte in coloro che hanno la sensazione di non aver vissuto pienamente. Un buon parametro interpretativo potrebbe essere il seguente: più la vita è stata povera, o il suo potenziale sprecato, più forte sarà l’angoscia di morte» (I. D. Yalom, Guarire d’amore. I casi esemplari di un grande psicoterapeuta, Rizzoli, p.132). La mancata risposta al problema della morte è una mancata risposta al problema della vita. Non credo che la morte si sconti vivendo, come scriveva Ungaretti; credo, piuttosto, che valga sempre la pena vivere, anche quando la vita morde e non la comprendi. Ma occorre braccare la speranza e vivere ogni momento donato come fosse il primo, con occhi vergini e meravigliati.
Gesù amava raccontare storie, parabole che toccavano il cuore e schiudevano orizzonti di luce. Racconta di un uomo che, partendo per un lungo viaggio, affida i suoi beni ai suoi servi. Al primo servo affida cinque talenti, al secondo due e al terzo un talento – secondo la capacità di ciascuno quindi – e poi parte (Mt 25,14-30). I primi due servi impiegano bene i loro talenti, facendoli fruttare e raddoppiandoli. Il terzo servo, invece, lo nasconde sotto terra. Al suo ritorno, il padrone chiede conto ai suoi servi di come abbiano investito i talenti affidati, elogiando i primi due servi per averli fatti fruttare. Con il terzo servo, invece, che aveva nascosto il talento per paura, il padrone è molto duro, rimproverandolo aspramente con parole che per tanto tempo ho fatto fatica a comprendere: «Toglietegli dunque il talento e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha» (Mt 25, 28-29).
Caspita! Com’è questa faccenda? A quel povero servo che ha un solo talento lo leva e lo dà a chi ne ha già dieci? Come si spiega? Oggi, alle soglie della senilità, quando gran parte della mia vita è stata vissuta, me lo spiego così: la vita si accresce soltanto vivendola, non nascondendola per paura. La vita la devi trafficare, la devi spendere, la devi vivere pienamente, perché se la nascondi ti viene tolto anche quello che hai. Ecco perché non c’è peggior tristezza che arrivare alla fine della vita e accorgersi di non aver vissuto (S. Olianti, Il coraggio di vivere. Oltre le paure che ci abitano, EMP, p. 68). Allora coraggio: risvegliamoci! Torniamo a innamorarci della vita, senza temere che giunga la fine, ma temendo piuttosto che non abbia mai inizio.
Puoi leggere l'articolo, arricchito da un approfondimento di fra Massimiliano Patassini sulla beata Chiara Luce Badano, nel numero di novembre del «Messaggero di sant'Antonio» oppure nella versione digitale della rivista. Provala ora!