La lotta alle mafie passa di qui
«Nel mondo della mafia si è in base a quanto si ha». Così Pierpaolo Romani, coordinatore nazionale di Avviso Pubblico, sodalizio che riunisce gli amministratori impegnati a promuovere la cultura della legalità. Camorra, ’ndrangheta, Cosa nostra, Sacra corona unita sono prima di tutto potentati economici e finanziari, con proprietà e interessi in ogni angolo d’Italia e del mondo. «Il tema dei beni e delle aziende confiscati è centrale – continua Romani –: togliere potere alla mafia significa togliere potenza intimidatoria».
Lo strumento che permette non solo di colpire le mafie nel portafoglio, ma anche di redistribuirne i beni alla collettività, è la legge 109/96, di iniziativa popolare. Appoggiata fortemente da Libera, l’associazione antimafia fondata da don Luigi Ciotti, è stata approvata dal Parlamento nel 1996 e migliorata, poi, nel 2010, con l’istituzione dell’ANBSC, l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati. Ma già la legge Rognoni-La Torre (646/1982), che introdusse il reato di associazione mafiosa, prevedeva misure di prevenzione patrimoniale. «Il modello italiano di aggressione dei patrimoni della criminalità organizzata e di riutilizzo degli stessi per finalità sociali è studiato in tutto il mondo», dice Romani. Tuttavia, l’iter non è semplice.
«La confisca – chiarisce il criminologo Vincenzo Musacchio – è una sanzione penale, nello specifico una misura di sicurezza patrimoniale che consiste nell’espropriazione – in favore dello Stato –, di un bene (o di un oggetto) che è servito per commettere un reato o che ne costituisce il profitto. I presupposti sono la pericolosità sociale e il pronunciamento di un giudice. Si procede al sequestro di un bene solo nel caso in cui il proprietario, indiziato per associazione mafiosa, non riesca a dimostrarne l’origine lecita. Sequestro e confisca di primo grado sono caratterizzati dalla provvisorietà. Solo con il decreto di confisca di secondo grado, il bene è confiscato e poi trasferito all’ANBSC».
L’Agenzia procede secondo quanto stabilito dal Codice antimafia, che prevede che i beni rimangano patrimonio dello Stato per «finalità di giustizia, ordine pubblico e protezione civile». Oppure che vengano trasferiti agli Enti territoriali (Comuni, Province o Regioni) i quali, a loro volta, possono amministrare direttamente i beni o assegnarli in concessione, a titolo gratuito, attraverso procedure di evidenza pubblica, a una serie di soggetti sociali indicati dalla legge. «Si tratta di associazioni, cooperative, gruppi, comunità terapeutiche, enti di formazione che si impegnano a trasformare i luoghi simbolo del potere mafioso in luoghi di riscatto e dignità, senza scopo di lucro», spiega Marco Lombardo, referente Libera Veneto. «Qui va evidenziata una prima criticità – aggiunge Romani –. Tra il sequestro, che è misura temporanea, la confisca e l’assegnazione ai Comuni, passano otto-dieci anni: un tempo molto lungo, mentre ci sarebbe bisogno di rapidità».
Le proprietà che lo Stato strappa alle mafie sono per il 46% immobili (ville, appartamenti, terreni agricoli, garage, negozi), ma ci sono anche beni mobili (oggetti di valore, natanti e vetture), aziende di ogni tipo, beni finanziari come contanti o pacchetti azionari. «Attenzione, però, ai dati dei beni confiscati, che sono sempre in evoluzione. Una corretta lettura deve tener conto della distinzione tra beni in gestione e beni destinati – spiega Sara Capitanio, volontaria di Libera –. Alla prima categoria appartengono tutti quelli che, per diverse ragioni (l’iter giudiziario è ancora in corso, esistono criticità che bloccano le procedure) non sono ancora stati trasferiti e, dunque, sono ancora sotto la gestione dell’Agenzia stessa. I beni destinati, invece, sono quelli per i quali le procedure sono giunte al termine e dunque è stato possibile procedere alla destinazione per finalità istituzionali o sociali. Questo non significa che tali beni siano stati anche riutilizzati, perché ci sono varie problematiche».
«Intanto, non dimentichiamo che, dal 1991 a oggi, in Italia più di 70 Comuni sono stati sciolti per mafia perché o conniventi o complici o, semplicemente, intimoriti – riprende Romani –. Poi c’è lo stato di degrado in cui i mafiosi lasciano i beni. Inoltre, su molti di essi gravano delle ipoteche, perché i criminali spesso accendono mutui per creare complicanze nel caso in cui il bene venga confiscato. Se pensiamo, poi, che questo governo ha definanziato 300 milioni di euro stanziati nel 2021 dal PNRR per progetti di valorizzazione dei beni confiscati alla mafia, come pensiamo che gli Enti territoriali possano sostenere le spese di ripristino? Molti avevano già redatto i bandi di appalto o avevano già assegnato i lavori alle ditte, e improvvisamente si ritrovano senza risorse. Con Legambiente, Cgil e Libera ci stiamo attivando per sollecitare il governo, che al momento ha risposto genericamente: “I beni confiscati troveranno copertura attingendo ad altre fonti di finanziamento”. Ma se passa troppo tempo e i beni non vengono riutilizzati, può succedere che le banche decidano di chiudere i rubinetti. Il rischio è che la gente dica che era meglio quando c’era la mafia».
«La restituzione di un bene alla collettività è parte della nostra mission (siamo tra i fondatori del Consorzio Libera Terra Mediterraneo), unita però alla sostenibilità dello stesso – spiega Michele Gravina, dirigente di Banca Etica –. Perciò siamo disponibili a finanziare, ma non a fondo perduto. Non si tratta di un atto caritativo, ma di responsabilità e di presa di consapevolezza. Utilizziamo strumenti ordinari (fidi, bond…), cercando di personalizzare e di agevolare, allungando il più possibile il tempo di restituzione. Nel 2021 abbiamo erogato 4,7 milioni di euro a organizzazioni impegnate nell’area diritti e legalità. Dove sta la difficoltà? Nella gestione del bene. Confisco i beni di Messina Denaro, tanto per stare nell’attualità, ne finanzio la rimessa in produzione, ma poi il bene deve stare sul mercato, ovviamente in maniera legale. Finora i risultati sono stati positivi. E poi molti dei nostri soci ci destinano i loro risparmi proprio perché noi finanziamo questo tipo di attività sociali».
A giugno 2023, la cooperativa «Rosario Livatino – Libera Terra», di Naro (AG), che da undici anni gestisce alcune centinaia di ettari strappati alle famiglie mafiose della zona, ha subito l’ennesimo danneggiamento. «I mafiosi non si rassegnano – conclude Lombardo –: rubano mezzi, devastano proprietà, rovinano raccolti, compiono intimidazioni e minacciano i gestori. Le forze di polizia sono molto attente, ma serve più protezione sociale. L’intera comunità deve attivarsi e riappropriarsi del proprio territorio. Più un bene è utilizzato e vissuto, minori sono i rischi».
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