Ai confini del cielo
Avevo valicato la cordigliera andina per raggiungere Uyuni, nel sud-ovest della Bolivia, luogo che, nel mio immaginario, mi avrebbe condotto alla porta del cielo. Un infinito viaggio in treno nel cuore del continente latinoamericano. Su una panchina in legno di un traballante vagone di seconda classe, osservavo i passeggeri seduti di fronte a me: un’anziana donna quechua avvolta in una mantiglia verde, famiglie riunite per un cammino della speranza verso un destino ignoto, piccoli gruppi di indios aymara. Sotto i sedili dei passeggeri le vecchie borse, tenute assieme da corde giuntate, nascondevano termos arrugginiti riempiti di matè bollente e giacche a vento americane rattoppate sulle maniche. I molti bambini in viaggio rimanevano composti, appoggiandosi alle mamme in cerca di calore e fissando il vuoto della carrozza. La visione oltre il vetro del finestrino, seppur replicata fino alla noia, lasciava senza fiato: l’inesauribile paesaggio che scorreva davanti agli occhi accarezzava le nuvole che, fluttuando sorrette dal vento, sfioravano la superficie dell’altipiano.
Il buio arrivò con una fretta insolita e innaturale. Nella carrozza iniziavano i preparativi per la cena. Nell’aria ormai stantia all’interno del vagone, i profumi delle pietanze si fondevano, creando una piacevole miscela di sapori. Un anziano indigeno seduto al mio fianco estrasse da un sacchetto di plastica una pannocchia di mais bollita. Dopo averla fatta girare tra le mani, la cosparse di sale e se la sgranocchiò senza mai fermarsi a prendere fiato. Infine svitò il tappo di una bottiglia per sorseggiare l’ultimo goccio di matè rimasto. Dopo il pasto i passeggeri si misero comodi. Ognuno provava ad addormentarsi nella posizione che più gli si addiceva: i bambini si facevano coccolare tra le braccia delle mamme, i vecchi rimanevano seduti facendo ciondolare le teste fino a far sbattere il mento sullo sterno.
Nel lento procedere del viaggio, nel cuore della notte la temperatura precipitò notevolmente sotto lo zero. Il vetro del finestrino si foderò di cristalli di ghiaccio. Deboli luci brillavano poco lontano dalla ferrovia, fiacche ombre si muovevano nel candido paesaggio. Ad un tratto il convoglio si fermò bruscamente nei pressi di una caserma militare di confine. All’avamposto di frontiera un piccolo esercito di uomini in divisa, imbacuccati con pesanti cappotti, passò al setaccio il treno, vagone per vagone. Controllò solo i documenti ai pochi viaggiatori stranieri, alla gente del posto, invece, perquisì i fagotti, rovesciando il contenuto sul pavimento delle carrozze.
Ripartimmo verso l’altipiano boliviano solo dopo alcune ore nel bel mezzo di una tormenta di neve. Il convoglio ferroviario entrò nella stazione di Uyuni alle prime luci dell’alba, con un ritardo di circa dieci ore. Sulla parete esterna della biglietteria un vecchio termometro ad ago indicava la temperatura: - 25°. Furono difficoltosi i primi passi a Uyuni: bisognava abituarsi a camminare su lastre di ghiaccio improvvisate nelle zone d’ombra. Serviva concentrazione anche per attivare e coordinare i movimenti del corpo, al minimo sforzo la respirazione diventava subito affannosa. Ai confini del cielo ci si deve muovere lentamente, con passetti corti, senza fretta. Con lo zaino sulle spalle, e la borsa dell’attrezzatura fotografica a tracolla, m’incamminai nella vana ricerca di una guest house che potesse offrire un minimo di tepore. Bussai a molte porte, ma dovetti arrendermi: sull’altipiano boliviano sono pochi coloro che possono permettersi un’abitazione riscaldata, la maggior parte degli alberghi economici – come le case comuni – non vanta questo privilegio. Gli indios del luogo hanno sempre sfidato il gelo dei mesi invernali coprendosi con pesanti scialli in lana di alpaca o battendo i denti.
Colchani, un piccolo villaggio abitato dagli indios Chipaya (etnia che da secoli si spezza la schiena nella raccolta del sale in cambio di una manciata di bolivianos), è la porta della più grande distesa salata del pianeta: il Salar de Uyuni. Questa area desertica, caratterizzata da sale bianchissimo e formazioni rocciose che si innalzano formando isolotti ricchi di vegetazione, si è creata in seguito al prosciugamento di un lago preistorico. Il paesaggio lunare che la caratterizza convoglia la mente nell’inquietudine e nell’incomprensione dei miraggi che la natura ha saputo creare. È una strana sensazione quella che si vive in questo singolare luogo.
La mattina andai a calpestare il bianco di quel mondo indurito fatto di sale. Aveva da poco smesso di nevicare, la luce radente che il sole appena sorto riusciva a generare dava vita a giochi di luce ingannevoli. Contemplai lo spettacolo accomodandomi su un’immaginaria poltrona rossa posta al centro del Salar: sbalordiva toccare la volta celeste con la punta delle dita e sentirla fondere nel candore della terra. Lassù, a quasi quattromila metri di altitudine, il silenzio accompagnato dalla lieve musicalità del sibilo del vento, frastornava.
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