Amanda Sandrelli. Nostalgia di teatro
Sali sul palcoscenico, si accendono le luci, si apre il sipario… e via, l’avventura sempre nuova parte, tu non sei più tu e diventi il tuo personaggio che cambia e si trasforma insieme a te, cresce e si modifica ogni volta a seconda di quell’intimo, indescrivibile, esclusivo rapporto con il pubblico. La timidezza sparisce e tu stai bene. Ti immergi in uno spazio di relazione che è unico, irripetibile, nel quale l’attore e il personaggio diventano uno e prendono nuova vita. No, non è un percorso di meditazione e di pace ma è l’alchimia vitale che sperimenta quotidianamente chi nel teatro ha trovato la sua modalità di vita, il proprio lavoro, lo spazio e il tempo della propria libertà.
Così è per Amanda Sandrelli, figlia d’arte indubbiamente, ma che ha trovato la sua strada nel teatro, senza rinnegare il «privilegio», ma anche la «complessità», di essere figlia di Stefania Sandrelli e Gino Paoli. «Sono attrice di teatro» sottolinea con il sorriso e l’energia che la contraddistinguono, anche se ha praticato il piccolo e grande schermo, dopo il fortunato debutto accanto a Benigni e Troisi in Non ci resta che piangere nel 1984, lavorando successivamente con registi quali Bertolucci, Soldati, Salvatores, Muccino.
Msa. Eppure, Amanda, lei voleva fare la psicanalista.
Amanda Sandrelli. Sì, volevo fare la psicanalista, non volevo assolutamente fare l’attrice, non mi attraeva, mi sembrava noioso, faticoso, specie il cinema. Ma nella vita bisogna assecondare le cose che arrivano, ci sono occasioni imprevedibili e quando tieni per forza la rotta che vuoi tu a volte ottieni il contrario o altro. Così quando, appena finita la maturità, mi è arrivata la proposta di lavorare con Benigni e Troisi, non potevo perdere l’occasione. Il film ha avuto un successo straordinario e sono arrivate moltissime proposte e così, anche se continuavo a volermi iscrivere all’università, sono passati dieci anni. Poi ho iniziato a prendermi il tempo che non avevo avuto prima e a scegliere i film in base a quello che mi faceva veramente crescere.
Finché non è arrivato il teatro con il debutto nel 1992 e la scoperta che il posto che ama di più è proprio il palcoscenico. Che cos’ha il teatro di così vitale?
Il teatro è qualcosa di magico: se non sto in teatro, se non sto sul palcoscenico, io soffro. Perché il teatro è qualcosa di fisico, c’è un legame che si instaura con il pubblico e tutta l’energia che dai durante lo spettacolo poi ti torna e ti carica. Prima di ogni spettacolo mi dico: divertiti e grazie. È un lavoro fatato, quando lo fai bene ti applaudono, cosa che non succede in altri lavori. È un riconoscimento di quello che hai fatto e ti obbliga in qualche modo a essere in contatto e sincera con te stessa. Come tutti gli strumenti, più li conosci più riesci a usarli bene. Così è anche per le emozioni e la capacità di richiamarle, che deve essere esercitata in palcoscenico e anche nella vita. E poi il teatro è qualcosa che inizia e finisce, tutto accade lì. Questo dà un senso di libertà enorme e mi ha insegnato a non chiedermi troppo. Cerco sempre di fare il meglio, ma mi accontento, sapendo che ogni errore è una possibilità di crescita.
Che cos’è il successo per Amanda Sandrelli?
Il successo per me non è mai stato un punto d’arrivo, non mi interessa. Anzi, all’inizio mi faceva un po’ paura. Nel teatro quello che semini raccogli e non sei legato allo show business, ma al rapporto che crei con il pubblico.
Il teatro è comunque un viaggio all’interno di altri personaggi, è entrare nella loro testa e nel loro cuore…
È quasi come conoscere qualcun altro. In un personaggio che interpreto c’è sempre qualcosa di mio. Però è importante capire che cosa corrisponde solo a me e togliere tutto quello che non corrisponde al personaggio. In teatro si va per sottrazione, e un po’ alla volta si arriva al centro del personaggio. C’è chi arriva prima con il corpo, chi con la testa. Il personaggio si rivela quando vuole lui e devi avere pazienza e umiltà. Però, nello stesso tempo, ogni personaggio ti dà la possibilità di essere davvero te stessa. È un un paradosso, ma la maschera del teatro permette di liberarsi dalle maschere che portiamo ogni giorno.
Qual è il personaggio che le ha fatto scoprire di più Amanda?
È difficile, perché è come con i figli, non puoi amarne uno più di un altro. Però ci sono dei personaggi che rappresentano un giro di boa. In particolare c’è un monologo sul libro di Eric-Emmanuel Schmitt Oscar e la dama in rosa. Oscar è un bambino che sta per morire e scrive ogni giorno una lettera a Dio… Oscar è stato forse il viaggio più profondo che ho fatto in me stessa: sono diventata un bambino di 8 anni e una vecchia signora e ho avuto anche paura di non uscire da Oscar, che è irriducibile, non si rassegna, vince anche se non ce la fa. Poi tutti i personaggi, anche quelli più diversi e lontani da me, mi hanno fatto scoprire qualcosa che mi riguarda.
Il tempo che viviamo, condizionato dalla pandemia da covid-19 ha penalizzato tutti e in particolar modo il mondo dello spettacolo…
Per il teatro è un periodo durissimo. Siamo stati i primi a fermarci e saremo gli ultimi a riprendere. Non possiamo usare la mascherina e non possiamo tenere le distanze. È una prova molto difficile. Per ogni attrice come me, che è capocomica, che in qualche modo continua a lavoricchiare, ce ne sono altri due o trecento che sono a casa fermi. E poi il nostro non è un lavoro in cui riesci a metter da parte qualcosa per i tempi bui, se non sei un primo attore. Abbiamo provato a fare più cose possibili d’estate per ritrovare un contatto con il pubblico, però chissà che cosa succederà nei prossimi mesi… Non è vero che i teatri hanno riaperto il 15 giugno, non si sa quando riapriranno davvero. Ma non dobbiamo rassegnarci.
Che cosa direbbe a un giovane o a una giovane che sente il richiamo del palcoscenico ma è intimorito anche dalla difficoltà di poterlo pensare come una professione?
A chi sente la passione, direi che vale sempre la pena di perseguire un sogno. Poi, al di là di questo, penso che bisognerebbe insegnare teatro a scuola, perché fa bene alla crescita, così come la musica, perché il teatro insegna anche a fidarsi dell’altro e ad accordarsi con gli altri. Tutti dovrebbero fare un’esperienza di un corso o di una scuola di teatro, perché è un modo di tirar fuori delle cose da sé e di sé, è un modo per affrontarle, guardarle, non vergognarsi.
Tra le sue esperienze c’è anche la realizzazione e direzione di un film documentario con Action Aid, dal titolo Piedi x terra, in Malawi. Che cosa in particolare l’ha colpita di questa esperienza in Africa?
Mi sono accorta cosa significa non avere futuro, non avere soluzioni, non avere neanche l’idea di una soluzione. Perché lì, nell’Africa più povera, le persone non hanno neanche la consapevolezza dei loro diritti. E invece da quelli bisogna partire, insegnando alle persone a farli valere, altrimenti nulla cambia. Non ci si deve abituare a non avere soluzioni, perché così si perde la possibilità di pensare e di avere un futuro.
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