Quegli abbracci non dati
Lo scorso ottobre la redazione del «Messaggero di sant’Antonio» si è riunita attorno allo schermo di un computer. Dall’altra parte, collegati «in remoto», due sacerdoti, una scrittrice e una giovane donna. Tutti insieme per ripercorrere quanto accaduto soprattutto tra marzo e aprile scorsi, e guardare in faccia il dolore di chi ha visto «scomparire» un proprio caro senza potergli stare vicino, consolarlo, salutarlo. Insieme per dire quel dolore, per rielaborare e risignificare quanto è accaduto. Cercando, soprattutto, di dare e restituire senso.
Abbiamo quindi parlato, senza giri di parole, di morte e lo abbiamo fatto insieme con Guidalberto Bormolini, religioso dei Ricostruttori nella preghiera, antropologo e tanatologo, Giovanni Musazzi, sacerdote della Fraternità di San Carlo Borromeo e cappellano dell’ospedale Sacco di Milano, Martina Picca, giovanissima autrice del volume Ma l’amore resiste. Memorie dalla pandemia (ed. Gutenberg) e Mara, una giovane donna che ha perso il papà per il covid. A queste voci si è poi aggiunta quella di un medico anestesista rianimatore, il dottor Renato Manzi, che opera nella terapia intensiva dell’Istituto dei tumori di Milano.
Alla scuola del covid
Msa. Padre Bormolini, che cosa ci ha insegnato il covid sulla morte?
Bormolini. Che vita e morte sono inscindibilmente intrecciate. Un virus invisibile ha messo in ginocchio una civiltà che non dà spazio all’invisibile e che si crede onnipotente. Questo senso di impotenza è importante, perché ci apre alla comprensione che c’è un Onnipotente a cui possiamo affidarci. L’altra lezione è quella del silenzio: non abbiamo potuto parlare alle persone care, né accommiatarci da loro. Tuttora facciamo fatica a pronunciare quel dolore. Ma il silenzio può anche essere forza e bellezza – un’arte che richiede allenamento – , ricco di senso e di consapevolezza, può consentirci di accompagnare qualcuno alla morte. Eppure in molti hanno cercato di soffocare quel silenzio pieno di potenzialità con il rumore dei social, con zoom, con i cellulari. Ma sarà solo quel silenzio che un giorno ci consentirà di percepire la voce di Dio che ci chiama a seguirlo al di là della porta della vita.
Don Musazzi, che cosa è mancato di più, secondo lei, nel periodo acuto della pandemia?
Musazzi. È mancata la comunità e la comunità cristiana in particolare. Si è pensato che gli strumenti tecnologici potessero sopperire a questa distanza, ma non era vero, perché l’io rinasce solo attraverso un incontro e questa è una grande verità non solo cristiana, ma antropologica. Io mi ritengo privilegiato, perché anche in quei giorni, in ospedale, ho fatto molti incontri significativi. Come quello con la coordinatrice di un reparto covid, non esattamente «amica dei preti»: ogni volta che mi incontrava non perdeva l’occasione per rimproverarmi, però un giorno mi ha detto: «Don Giovanni continui a venire, perché le persone qui muoiono da sole!». O quello con un’altra caposala che un giorno ha chiesto a un’infermiera di tenere la mano a un morente fino alla fine. Perché ogni morte porta con sé un’ultima solitudine che, alla fine, resta inconsolabile. Per questo penso che alla morte ci si debba preparare, anche chiedendosi con onestà: «Come mi sto preparando alla morte, come sto vivendo la vita, che relazione sto vivendo con quell’uomo che ha detto “io sono la via, la verità e la vita”?».
Che cosa succedeva in reparto quando le persone la vedevano avvicinarsi?
Musazzi. Un giorno, un uomo mi ha chiesto: «Ma perché vieni qui, tu che potresti non farlo?», ed era vero, perché tutti gli obblighi dei cappellani in periodo covid erano stati sospesi. Io non mi aspettavo quella domanda e ho risposto in modo istintivo: «Vengo qui perché ho qualcosa da dire e penso che se non venissi io probabilmente non la direbbe nessuno». Poi, ripensandoci, ho capito che era la risposta giusta, anche se non era stata meditata. Perché il cristianesimo si è diffuso, storicamente, proprio attraverso la carità in un mondo che non la conosceva, e grazie a persone che avevano incontrato Cristo e volevano parlare di lui con i fatti oltre che con le parole. E le persone in ospedale questo lo hanno capito, perché lì non c’era tempo, bisognava andare all’essenziale. Chi mi chiamava sapeva che l’avrei raggiunto e che avremmo fatto sul serio. Racconto un altro episodio. Durante la Quaresima, con l’altro cappellano, don Mauro, abbiamo fatto una Via crucis in corridoio. Siamo passati davanti a tutte le stanze e con la croce abbiamo benedetto i pazienti: quasi tutti, credenti o meno, si sono fatti il segno della croce. I malati, soli nelle loro stanze, avevano bisogno di gesti veri, autentici, di significato.
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Di seguito alcuni estratti dell'intervista collettiva che ha reso possibile questo dossier.
Mara è una giovane donna di Piacenza che ha perso il papà a causa del Covid-19. Alla redazione del «Messaggero di sant’Antonio» ha raccontato il dramma vissuto e la grande difficoltà ad accettarlo. «Un virus invisibile ha messo in ginocchio una civiltà che non dà spazio all’invisibile» spiega p. Guidalberto Bormolini, religioso dei Ricostruttori nella preghiera, antropologo e tanatologo. Il ruolo del silenzio e la sua importanza in un momento difficile come quello che stiamo attraversando. Ne parla p. Guidalberto Bormolini, religioso dei Ricostruttori nella preghiera, antropologo e tanatologo. La morte va vista come un dono, l’ultimo dono della nostra vita. Parola di p. Guidalberto Bormolini, religioso dei Ricostruttori nella preghiera, antropologo e tanatologo. Al di là di tutto il dolore e la sofferenza che il Covid-19 sta portando, come ci ha trasformato la pandemia? Ne usciremo migliori o peggiori? Risponde p. Guidalberto Bormolini, religioso dei Ricostruttori nella preghiera, antropologo e tanatologo.
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