Morte. Non neghiamoci la pace

Nei mesi più duri del Covid-19 in molti non abbiamo accompagnato i nostri morti. A volte nemmeno seppelliti. Ma ora siamo chiamati a servire la vita.
01 Novembre 2020 | di

In novembre i nostri morti si fanno memoria comune. Nella fede li riconosciamo chiamati alla vita eterna, non più con noi, ma presenti nel custodire l’attesa comune di tornare insieme. Quest’anno un numero impensato di persone ricorda morti impensati. Mancati senza un saluto, senza mani che si stringono, carezze che si portano con sé. Chi va e chi resta, le porta con sé. Che pena. Una povertà del tutto nuova per noi abituati ai riti distesi del commiato che convocano le famiglie disperse nel mondo, i conoscenti ritrovati, riti che ci permettono di raccogliere e allineare gli ultimi cinque o dieci anni delle nostre storie, di conoscere i nuovi nati. Un abbraccio. E invece non è stato possibile.

E infatti c’è una grande rabbia, che forse alleggerisce un poco il dolore, e insieme ci sono anche le denunce, ci saranno i processi che allungheranno lo strazio sì, ma la giustizia serve anche a trovare pace. E c’è la ricerca delle responsabilità. Avremmo dovuto fare diversamente? Come è potuto accadere? Come, proprio a noi così ricchi, avvertiti, capaci. Intanto che si cercano le responsabilità abbiamo da trascorrere  questa memoria dei morti che il mese di novembre ci porta. 

Gesù ha detto qualcosa sui morti che ha squarciato l’universale pensiero dei credenti di tutte le fedi intorno all’importanza della sepoltura: «A un altro (Gesù) disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre”. Gesù replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio”». (Lc 9, 59-60). In un colpo solo sembra frantumato il comandamento di onorare il padre e la madre e quello di onorare i morti con la sepoltura, rinnovato puntualmente a partire da Abramo, che acquista dagli Ittiti la terra per seppellire Sara, il primo lembo di Terra promessa, al libro di Tobia, in cui il padre Tobi seppellisce a rischio della propria vita gli ebrei uccisi e abbandonati malgrado la proibizione del re Sennachérib.

E poi, dopo la morte di Gesù, ci sarà Giuseppe di Arimatea che si prenderà cura del corpo di Lui e, ancora, più tardi, la Chiesa farà del seppellire i morti una delle sette opere di misericordia. E allora? Abbiamo molte letture di queste parole di Gesù e quando questo accade vuol dire che c’è qualcosa che ha a che vedere con il cuore dell’Annuncio. Tanti significati significa tanta ricchezza

Ci chiediamo: che cosa può impedire a un figlio di seppellire il padre? Il fatto di essere chiamato a salvare una vita. Un bambino che ha bisogno di aiuto per nascere. Una persona da salvare dalla disperazione. Una povertà improvvisa che chiama. Servire la vita è sempre più importante di seppellire i morti. Ecco. In questo tempo di memoria possiamo indossare maschere funerarie piene di indignazione oppure accettare di vivere in tempi eccezionali e chiedere al Signore di superare anche questo dolore servendo la vita. Che è poi quell’annunziare il Regno di cui parla Gesù.

Non abbiamo accompagnato i nostri morti. A volte nemmeno seppelliti. Ora siamo chiamati a servire la vita. Abbiamo definitivamente capito che l’età anziana non può essere custodita in quelle concentrazioni di fragilità che sono le megaresidenze, dove anche la gestione più virtuosa non può impedire che l’evento avverso si trasformi in tragedia. Sono funzionali a uno stile di vita che non permette altri tipi di cura? Ma anche questo stile di vita si è rivelato pericoloso, dissipativo, ingiusto. E allora si cambia, si cambia. 

Possiamo fare memoria dei nostri morti impensati testimoniando ai figli e ai nipoti, con le parole libere dalla rabbia e i gesti di cura propri di questi giorni, che la vita è una e la possiamo servire meglio di come abbiamo fatto fino ad ora. Possiamo evitare il pericolo di negarci la pace.

 

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Data di aggiornamento: 01 Novembre 2020
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