Amarsi nella debolezza
«Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: “È vero che Dio ha detto: ‘Non dovete mangiare di alcun albero del giardino’?”. Rispose la donna al serpente: “Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: ‘Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete’”. Ma il serpente disse alla donna: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture». Genesi 3, 1-7
Che potenza questo brano! In poche righe è racchiuso un trattato antropologico sull’essere umano: le dinamiche psicologiche distruttive che lo infestano e come si manifesta l’inclinazione al male all’interno della coppia. Sappiamo, ovviamente, che dobbiamo accostarci al brano non come alla ricostruzione storica di un misfatto, ma come a una lettura simbolica dell’essere umano e delle sue inclinazioni. Nel brano, così come nella nostra vita, appare il male (il serpente). Non sappiamo perché esso esista, ma è chiaro che c’è. Esistono diverse forme di male. C’è il male «evidente», come la guerra che sta provando l’Ucraina, la fame che porta i migranti a rischiare la propria vita, la violenza tra gli uomini. Ed esiste poi il male «subdolo», più sottile e difficile da riconoscere, che si propaga attraverso la cultura di massa: passa attraverso un video di whatsapp o il discorso approssimativo di un amico su tematiche complesse, per esempio.
Questo male si radica nelle nostre idee, nelle nostre teorie ingenue e ce lo ritroviamo addosso senza neppure distinguerlo come tale. Il serpente si muove secondo questo secondo stile: è subdolo, portatore di un male astuto. La sua astuzia è riconoscibile nella traduzione corretta della sua domanda, che sarebbe: «È vero che Dio ha detto: “Non mangerete di tutti gli alberi del giardino?”». A differenza della domanda che troviamo nel testo riportato (che è chiaramente falsa), questa domanda è sia vera che falsa, poiché può essere intesa sia nell’accezione che una volta che vieti di mangiare da un albero non puoi più mangiare da tutti gli alberi (vero), ma anche che Dio li ha privati della possibilità di mangiare di qualsiasi albero del giardino (falso).
Il serpente, quindi, usa un’ambiguità linguistica, dicendo una cosa vera ma con un’intenzione falsa. Questo stile lo ritroviamo anche in molte affermazioni che riguardano l’amore di coppia. Ad esempio: è vero che una coppia in cui non c’è più amore non ha più senso di esistere? Ovviamente è vero che una vita di coppia senza affetto è un contenitore vuoto, che non è una relazione che possa dare gusto alla propria esistenza. Però, è altrettanto vero che il sentimento in certi passaggi di vita può ridursi o sparire, eppure, se si mette in gioco una sana determinazione a restare, ponendo se stessi in discussione, può riapparire. La fedeltà alla parola data può essere la roccia a cui aggrapparsi per rivitalizzare il proprio legame.
Un altro elemento, tra i molti che vorremmo mettere in evidenza, è che l’effetto della rottura del patto di fiducia tra Adamo ed Eva e il Padre, è il riconoscimento della propria nudità. La nudità rappresenta la propria creaturalità (ciò che «siamo» nella nostra umanità). Anche prima di mangiare la mela, Adamo ed Eva erano nudi, ma questo non era per loro un problema (non lo era la propria creaturalità, né quella dell’altro). Prima di cedere alle lusinghe del serpente, l’essere umano poteva stare in un rapporto pacificato con la propria umanità, riconoscendosi limitato, debole, imperfetto (siamo fatti di polvere) e al contempo prezioso, infinito, bello, unico (siamo fatti dello Spirito del Padre). Questa mescolanza, propria e altrui, tra cielo e terra, in origine era vissuta in totale intima accoglienza. La rottura del rapporto con il Padre causa anche la rottura di un rapporto benevolo con la nostra umanità. Se diffido del fatto che Dio sia un Padre buono, diffido anche della possibilità che mi abbia fatto buono.
La nostra creaturalità non è più, dunque, qualcosa da accogliere amorevolmente, ma qualcosa da nascondere, da coprire con le foglie di fico. Ma se non guardo le mie vulnerabilità umane con occhi di accogliente tenerezza, allora dovrò difendermi anche da chi, volontariamente o meno, mi riporta in contatto con la mia parte fragile. Nella relazione con mia moglie ciò avviene quando lei con le sue parole o i suoi comportamenti mi ricorda quanto sono insufficiente, e io non riesco ad accogliere la mia parzialità con serena e benevola accettazione, anzi, rispondo in modo reattivo per difendermi, mostrandole, a mia volta, tutta la sua pochezza, la sua miseria, le sue inabilità. Senza esserne del tutto consapevoli, facciamo a gara su chi è più sbagliato tra noi due. E tutto ciò perché non riusciamo a guardare alla nostra e all’altrui creaturalità con benevolenza.
Ma c’è una buona notizia: un ritorno alle origini è possibile, se riusciamo a ricomporre la dinamica di fiducia con il Padre, consegnando al suo sguardo amoroso la nostra creaturalità (imperfetta ma amata). Facendo esperienza di come il Padre ci benedice («era cosa molto buona») in quello che siamo, gratuitamente, senza che noi ce lo dobbiamo meritare, solo perché noi siamo noi. Solo con questo sguardo addosso potremo, senza paura e vergogna, mostrarci nella verità al nostro partner e, a nostra volta, lo potremo accogliere con amorevole compassione per ciò che è.
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