Antonio nell’Isola Splendente
Arriviamo a notte. Nove ore per i quattrocento chilometri che separano Negombo, cittadina poco a Nord di Colombo, capitale di Sri Lanka, da Jaffna, capoluogo delle regioni settentrionali dell’isola. L’accoglienza dei seminaristi, ragazzi adolescenti, della scuola francescana «Ave Maria» ci sorprende, cancella la stanchezza del viaggio. I ragazzi ci aspettavano. C’è una chitarra, un canto corale, ci mettono al collo una collana dorata, ci coprono la testa con una stoffa colorata, ci donano un vaso dove hanno sistemato un cocco, che sembra far nascere altre piante ed è poggiato su una piccola distesa di riso, ci sono tre banane su cui sono infilati altrettanti bastoncini di incenso accesi. Ci commuove. Ci spiegheranno poi che è un dono importante, un simbolo della cultura Tamil, popolo del Nord di Sri Lanka, minoranza, in gran parte induista e musulmana, in un’isola dove la religione più diffusa è il buddismo. Questa accoglienza è, per noi stranieri, un’immagine della complessità religiosa, antropologica, sociale e politica, di questo Paese: in un seminario francescano si è accolti con simboli di un’altra religione.
Ci fermiamo in uno dei mille chioschetti lungo la strada per Anudhapura, antica capitale dell’isola, luogo sacro del buddismo, e, mentre aspettiamo un succo di papaya, lo sguardo cade su una piccola mensola dove Cristo sta impartendo la sua benedizione e al suo fianco, seduto, c’è Buddha. E, a lato della cattedrale di Saint Mary, a Negombo, in un negozio di articoli religiosi, troviamo un’immagine di saint Anthony dolcemente appoggiata sulle ginocchia di un Buddha che, a occhi socchiusi, continua a lasciar scorrere i suoi pensieri.
Il cielo delle religioni è affollato a Sri Lanka. I censimenti cercano di cristallizzare le molteplicità delle diverse fedi. I buddisti sono la grande maggioranza: il 70% della popolazione dell’isola. Gli induisti sono il 12%, i musulmani il 10%, in gran parte sono Tamil. I cristiani sono la minoranza: il 7%, presenti soprattutto nella parte centrale della costa occidentale. Ma sono stati loro ad aver portato Antonio, saint Anthony, nell’Isola Splendente. Una presenza, fisica e spirituale, che sembra cercare una possibile convivenza sociale e religiosa. I simboli sacri si incrociano di continuo tra i fedeli. Come se cercassero di attenuare la separazione che troppo spesso appare insanabile tra i due popoli dell’isola: i Singalesi sono il 75% dei suoi 22 milioni di abitanti. I Tamil, abitanti del Nord e di parti dell’Oriente, sono il 17%. Una guerra civile tra i due popoli, cominciata nel 1983 e finita solo nel 2009 con la resa dei guerriglieri Tamil, ha spezzato l’isola, insanguinandola con 70mila vittime, costringendo all’esilio centinaia di migliaia di persone. Le ragioni del conflitto sono ferite ancora aperte nelle vene di Sri Lanka.
La presenza antoniana
Sant’Antonio vi è arrivato, nei primi decenni del 1500, con i missionari portoghesi al seguito di Vasco de Gama. Il Santo ha resistito agli anni della colonizzazione olandese (protestanti, avversari di ogni raffigurazione sacra), ed è riuscito a riapparire tra la gente solo nei primi decenni dell’800. E, da allora, è entrato nell’anima del popolo. Al martedì, giorno di Antonio, vado a Colombo, la capitale dell’isola. Traffico da follia. Tutti sembrano diretti al sobborgo di Kotahena. Qui si trova la chiesa di Kochchikade, la chiesa di Śānta Antōni Siddhasthānaya, sant’Antonio. Non è certo un eremo. Le sue finestre posteriori si affacciano sul convulso porto-container, l’orizzonte è sbarrato dalla soffocante costruzione di un viadotto aereo, una nuova tangenziale. Il parcheggio nel quartiere è caotico, i motorini si addossano uno all’altro. Una statua di Antonio, alta due metri, sovrasta il traffico. La folla di fedeli è, a sorpresa, ordinata, tranquilla, quasi composta e, quando i canti si fermano, è perfino silenziosa. Rimane assorta nella preghiera. Migliaia e migliaia di uomini e donne, ogni martedì, arrivano da ogni parte dell’isola per pregare il Santo di Padova. La città veneta è il luogo italiano più celebre a Colombo: tutti qui sanno che il primo di maggio di ogni anno, da quasi trent’anni, migliaia di srilankesi, dispersi per l’Italia e l’Europa, vengono alla Basilica padovana per incontrare direttamente il loro Santo.
«Il mio più grande desiderio è andare a Padova», mi dice Nayomi, ragazzina quindicenne che ha in mano una candela esile, ricurva e lunga più di un metro. «Le persone che vengono in questa chiesa per la maggioranza non sono cattoliche – mi racconta Jude Samantha, parroco da pochi mesi a Kochchikade –, buddisti e induisti, ma anche i musulmani, entrano qui. Spesso è solo una breve visita: arrivano in scooter o in tuk-tuk, scendono, e toccano la statua di Antonio. Spesso accendono una candela. E vanno via». Con Jude, ci facciamo largo tra la folla, la Messa sta per cominciare: «Molti credono che sant’Antonio sia Dio, e mi chiedono come pregarlo. Io rispondo: con il cuore» mi confida. La chiesa è stracolma, le Messe e le benedizioni si susseguiranno per tutto il giorno. Una ventina di sacerdoti accorrono per aiutare i tre preti a cui è affidata la chiesa. La gente saluta Antonio all’ingresso, si inchina di fronte alla reliquia – portata qui da Padova –, compra le candele di sego, le accende in una sorta di vasca piena di acqua e cera. Odore di incenso. Ci si mette in coda (e la fila occupa l’intera navata) per sfiorare una piccola statua («miracolosa», mi dice Jude) di sant’Antonio, giunta qui nel 1822 da Goa.
La chiesa è affollata di santi, quasi come un tempio induista. Maria è ovunque. I fedeli cercano di toccare ogni vetro delle teche che proteggono le statue e le immagini. Lasciano le impronte delle loro mani. Coda ai confessionali. Coda alle benedizioni con olio santo. Molte donne si siedono per terra ai piedi della statua di Antonio e rimangono per un tempo infinito a guardarlo negli occhi. Un’altra fila: per porre attorno al collo del Santo una ghirlanda di fiori bianchi. Tutti lasciano un’offerta, spesso generosa. Questa chiesa è un universo: da una balaustra ci si affaccia su un sottosuolo dove, accanto a vasche con grandi pesci, vi è ancora una statua di Antonio, replica dorata dell’originale che si trova nel chiostro della Basilica padovana. E, sulla parete a fianco, vi è un affresco che raffigura il miracolo della predica ai pesci. All’ora del pranzo un’altra fila si allunga all’esterno: piatti di riso, verdure e frutta, sono stati preparati per oltre 250 persone. «Mangiamo assieme, gomito a gomito. Fa parte della gioia di questo giorno», racconta padre Jude.
La chiesa di Kochchikade è nata qui perché questo è il luogo di uno dei miracoli di sant’Antonio. Il primo compiuto nell’isola. Risale al tempo del dominio degli olandesi. Protestanti, impedivano ai cattolici di professare la loro fede. Un frate solitario si nascose tra i pescatori. Celò la sua identità e riuscì a diffondere nuovamente la devozione ad Antonio. Fu talmente convincente che la gente dei villaggi costieri chiese il suo aiuto: era possibile arrestare l’erosione della costa che minacciava le loro capanne e il loro lavoro? Il frate ci provò: alzò una croce sul bagnasciuga, cominciò a pregare e, ben presto, fu evidente che il mare arretrava. Perfino i rigidi olandesi, venuti a sapere del miracolo, lasciarono libero il frate di continuare la sua missione e gli consentirono di costruire una piccola cappella di fango sulla spiaggia, trasformata in grande chiesa nel 1834.
La Pasqua di sangue
C’è una stanzetta di lato all’ingresso della chiesa di Sant’Antonio. È un piccolo sacrario. C’è una lapide, in marmo nero. Ci sono incisi 57 nomi, persone uccise da una bomba che esplose nella chiesa alle 8.45 del mattino durante la Messa di Pasqua del 2019. Fu una strage: nello stesso istante altre due bombe devastarono la chiesa di San Sebastiano a Negombo (116 vittime) e quella protestante, la chiesa di Sion, a Batticaloa, sulla costa orientale (31 vittime). Altre bombe esplosero contemporaneamente in quattro grandi alberghi dell’isola. Altre ancora furono disinnescate. Quella domenica di Pasqua morirono 269 persone. Si frantumò tragicamente il difficile cammino verso una convivenza reale, dopo quasi tre decenni di guerra, tra le due etnie dell’isola e tra le diverse religioni. Il sogno di una pace, sia pur apparente e precaria, sembrò dissolversi definitivamente. La chiesa cattolica srilankese fu capace di fermare ogni rischio di vendetta contro i musulmani, dopo che un gruppo locale di terroristi islamisti rivendicò l’attentato. A sei anni di distanza, nonostante molti arresti, non c’è ancora una verità consolidata attorno a quanto è accaduto in quella Pasqua di sangue. Troppi lati sono rimasti oscuri.
Alzo gli occhi e vedo la fila incessante di persone (uomini, donne con il bindi, il «punto» induista sulla fronte, ragazzi con l’aria di chi vuole mordere la vita, vecchi dalle rughe profonde, madri e padri che alzano il figlio piccolo perché incroci lo sguardo del Santo) che sosta di fronte a una teca di vetro dove giace la statua-corpo di Antonio. Vedo i colori delle ghirlande, le fiammelle delle candele, le mani che sfiorano i piedi del Santo. Tutto questo è Sri Lanka. L’isola, dopo gli anni ’70, ha vissuto tempi terribili: la guerra civile durata per quasi tre decenni, la tragedia dello tsunami nel 2004 (oltre 35mila vittime), gli attentati spietati del 2019, il covid, una disastrosa crisi economica e politica che, nel 2022, ha portato alla dichiarazione di fallimento dello Stato, e alla cacciata di un presidente costretto alla fuga nel luglio di quello stesso anno.
Ho la sensazione che Antonio abbia il suo daffare in questa isola. «Mi auguro che la pace trovi la sua strada», mi scrive un frate dopo la mia partenza. A me, uomo occidentale, la fedeltà al Santo così diffusa e commovente, dà speranza. Antonio, la sua storia, la sua popolarità e la devozione che scavalca i confini religiosi ed etnici, sembra rendere fratelli cristiani e buddisti, musulmani e induisti, e può davvero rappresentare una fiducia, una possibilità, un futuro. Non è poco in un Paese nel quale, sotto la dolcezza del paesaggio e i sorrisi miti della gente, a ogni istante, possono riaprirsi le cicatrici della violenza. Simon, il frate guardiano della famiglia conventuale dell’isola, mi ripete: «La gente qui ha fiducia in sant’Antonio». «È un amico, uno di famiglia», mi dice un altro giovane frate. Ho visto una madre avvicinarsi alla sua statua con alcuni quaderni in mano e il figlio a fianco, pregando perché il ragazzo passi gli esami a scuola.
Ho visto un altro ragazzo sovrappeso annodare uno straccetto bianco a una griglia metallica accanto alla piccola statua «miracolosa» di Antonio, a Colombo. Sono decine i nodi lasciati in segno di supplica al Santo: sono ragazzi e ragazze che cercano un amore, un fidanzato, una fidanzata. È una delle grazie che più frequentemente si chiedono ad Antonio. Costeggio il porto, cuore commerciale della città, e, in meno di un chilometro, sfioro il tempio induista di Sri Kailawaganathan Swami, il più antico dell’isola, e, nei vicoli del bazar di Pettah, la singolare moschea di ul-Alfar, la Moschea Rossa. Fu costruita, ai primi del ’900, da Saibo Lebbe, un semplice muratore. A volere questi santuari di tre religioni furono i mercanti e i pescatori. Un brusio di sottofondo, che sfida i rumori del traffico, vola tra le strade di questi quartieri, un canto-mosaico che prova, ancora una volta, a tenere assieme le religioni dell’Isola Splendente.
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