«L’Africa mi ha adottato»

A dirlo monsignor Christian Carlassare, dallo scorso luglio alla guida della diocesi di Bentiu, in Sud Sudan, Paese dilaniato da decenni di guerra. Un amore, quello per l’Africa, che neppure il ferimento subito nel 2021 è riuscito a smorzare.
28 Aprile 2025 | di

«La mia vocazione non è altro che essere la persona che sono, senza finzioni o maschere, senza cercare un posto nella società che non sia in risposta alla responsabilità e all’impegno che il Vangelo chiede. L’essere prete è una disponibilità a Dio e alle persone con cui vivo». Le persone con cui vive monsignor Christian Carlassare sono uomini e donne del popolo sudsudanese al quale, dopo la professione solenne nell’Istituto dei missionari comboniani e l’ordinazione sacerdotale avvenuta nel 2004, ha deciso di dedicarsi. Una scelta dovuta anche alla devozione a santa Giuseppina Bakhita, originaria del Sudan, che a Schio (provincia e diocesi di Vicenza), dove Carlassare è nato il 1° ottobre 1977, è vissuta e morta.

Dopo alcuni anni tra la gente di etnia Nuer di Old Fangak, nello stato di Jongley, l’8 marzo 2021 papa Francesco lo ha nominato vescovo di Rumbek. A soli 43 anni, probabilmente il più giovane vescovo cattolico missionario del mondo, padre Christian si trovava a reggere la diocesi di padre Cesare Mazzolari, rimasta vacante dalla morte di quest’ultimo, nel 2011. Ma la gioia ha subito una battuta d’arresto nella notte tra il 25 e il 26 aprile dello stesso anno, quando il comboniano è stato gravemente ferito alle gambe da due uomini. Un attacco perpetrato in seno alla Chiesa locale. 

Eppure Carlassare è riuscito a perdonare i suoi aggressori. «Quando ho perso i sensi a causa dell’emorragia di sangue, pensavo di essere morto – racconta –. Ho sentito il dispiacere di lasciare i miei cari senza poterli consolare, ma anche la tristezza di non morire in stato di grazia o di meriti particolari. Invece mi sono risvegliato e allora ho capito di essere entrato in una seconda fase della vita: un tempo supplementare per testimoniare che Dio è grazia. Il perdono è stato un atto la cui forza mi è stata data in dono in quel momento, e mi ha liberato da rabbia, frustrazione e paura. Se non vivessi il perdono, sarei anch’io parte del problema. E il Sud Sudan non avrebbe più bisogno di me».

Invece il Sud Sudan ne ha bisogno eccome. Dopo un periodo di convalescenza in Italia, Carlassare è ritornato. «Sono europeo di nascita e africano di adozione», dice. Oggi è vescovo di Bentiu, una diocesi nuova, fondata il 3 luglio 2024, che copre 38mila chilometri quadrati, per una popolazione di oltre un milione di abitanti, di cui 600mila cristiani. Nelle 7 parrocchie (3 in un territorio della tribù Dinka, 4 in un territorio della tribù Nuer) operano 7 sacerdoti diocesani, più di 600 laici impegnati come catechisti, 5 religiosi. Vengono somministrati 6mila battesimi l’anno (ma solo il 20% dei battezzati arriva a ricevere comunione e cresima in età adulta); i matrimoni sono pochi (nel 2024, solo una ventina). Nel 54esimo Paese africano, resosi indipendente nel 2011, le prime elezioni dovrebbero tenersi nel dicembre 2026. «La diocesi è impegnata a lavorare per educare i cittadini al processo elettorale – spiega il prelato –, perché la costruzione della nazione deve basarsi sul bene comune». 

Il vescovo Carlassare sa bene che i decenni di guerra – prima per l’indipendenza dal Sudan e poi per il potere, tra il presidente Salva Kiir Mayardit (di etnia Dinka) e il vice Riek Machar (di etnia Nuer) – hanno lacerato il tessuto sociale di un Paese già complesso, visto che i 12 milioni di abitanti sono divisi in 64 gruppi etnici che parlano lingue completamente diverse. «Ricucire non è facile – ammette –. Le ferite del conflitto e il trauma rendono le persone passive, incapaci di costruire il futuro, e sempre in attesa di soluzioni dall’alto. Inoltre, nella cultura tradizionale, il nemico non va mai perdonato, va battuto o reso innocuo. Bisogna spiegare invece che il nemico va “conquistato” con la correzione fraterna, con un modo diverso di vivere che egli ancora non conosce. Nelson Mandela suggeriva di essere pronti a lavorare con il nemico, perché con il tempo diventerà un collega o, addirittura, un amico. Non perché si debba accettare il male fatto, ma perché si diventa capaci di distinguere il valore della persona dalle sue azioni. Il perdono permetterà alle nostre genti, che ora si dicono nemiche, di riconoscersi fratelli e sorelle o, per lo meno, parte dello stesso popolo e nazione. Ci sono dei segnali in questo senso. La maggioranza della popolazione sente già di appartenere allo stesso popolo, di aver subito le stesse tragedie e quindi di dover solidarizzare. La guarigione sta prima di tutto nei cuori».

Il Sud Sudan è considerato tra i Paesi più poveri al mondo. «La crisi economica colpisce tutta la popolazione – conferma il vescovo –. Non mancano le risorse, manca la capacità di trasformarle in vita per tutti, attraverso i servizi più basilari. La corruzione è quanto di più disumano ci sia, perché ruba ai poveri e agli indifesi. Se in alcune parti del Paese si intravede qualche possibilità di miglioramento, a Bentiu la situazione è drammatica in quanto a miseria ed emarginazione. A causa dei conflitti e della conseguente insicurezza, l’80% della popolazione vive sfollata. Inoltre, la crisi climatica, che ha colpito la regione negli ultimi cinque anni, ha provocato grandi siccità in alcune aree del Paese e una serie di inondazioni senza precedenti, in altre. Circa il 40% del territorio è alluvionato tutto l’anno, con una grande perdita di bestiame, di terre coltivabili e risorse. Quell’acqua stagnante è anche inquinata dalle sostanze chimiche utilizzate nell’estrazione del petrolio. Mi chiedo se davvero questa parte di umanità stia a cuore al nostro mondo più interessato al valore economico della vita delle persone che alla loro dignità».

Difficile in questo panorama di desolazione immaginare un futuro di pace. «Solo per il fatto che ci sono persone che aspirano alla pace, allora c’è speranza – continua monsignor Carlassare –. E questo fatto mi impressiona, cioè che la gente aspiri alla pace pur non avendola mai del tutto sperimentata, ma con la sola percezione di ciò che dovrebbe essere. Soprattutto nel Sud Sudan, l’evangelizzazione prende il nome di riconciliazione. Dobbiamo riconciliarci riconoscendo che la risorsa più bella non sono le ricchezze del sottosuolo, ma le persone. Saranno loro, quando riconciliate, a fare dell’Africa il continente più sviluppato al mondo, dimostrando che le relazioni umane contano più dei rapporti commerciali. Con il sostegno dell’Onu, sono stati promossi incontri di dialogo e riconciliazione tra le comunità Dinka e Nuer presenti nel territorio della nostra diocesi. Dal 2014 c’erano stati solo scontri e silenzio. Ho la gioia di testimoniare questo grande salto di qualità, forse incoraggiato dall’erezione della nuova diocesi, e dall’aver scelto l’ascolto e l’accoglienza di tutte le diversità».

Si scoraggia mai? «Sì, ogni giorno – conclude –. Se guardo alla situazione della nostra comunità di Bentiu e del mondo, facendo conto solo sulle mie/nostre possibilità, allora non c’è via di scampo. Ma io ogni giorno mi affido a Dio. E, nei momenti più delicati e sofferti, recito la preghiera di Charles de Foucauld: “Padre mio, io mi abbandono a te, fa di me ciò che ti piacerà. Qualunque cosa tu faccia di me, io ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto, purché la tua volontà si compia in me”». 

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Data di aggiornamento: 28 Aprile 2025
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