Beatles Revolution

La band, con le sue canzoni, ha toccato le corde profonde di un’enorme massa di giovani, intercettando il loro bisogno di leggerezza ma anche di cambiamento. Per questo i Beatles sono ancora amatissimi.
06 Aprile 2020 | di

No, non ebbe un buon fiuto Dave Dexter Jr, produttore della Capitol Records, quando a Los Angeles ascoltò i primi 45 giri dei quattro giovanotti di Liverpool, che gli avevano inviato dall’Inghilterra. Di là dall’ocea­no la band stava già facendo faville, e la Capitol aveva intenzione di lanciarla anche negli Stati Uniti. Ma il discografico non era convinto: per lui quei quattro ventenni erano solo «a bunch of long haired kids», quattro capelloni, niente di che... Nell’arco di pochi mesi, tuttavia, Dexter dovette ricredersi: i Beatles, ammise, erano «the hottest thing», il fenomeno più forte che la Gran Bretagna avesse mai visto.

Tra il 1962 e il 1970 trascorsero appena otto anni, eppure furono anni incredibili e potenti, anni che sconvolsero la musica, come ha titolato perfino «L’Osservatore Romano»: perché i Beatles – John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr – portarono una rivoluzione nell’universo delle canzoni e delle emozioni, proprio mentre tutta la società stava indossando abiti nuovi. «I Beatles toccarono le corde profonde di un’enorme massa di giovani e intercettarono un bisogno di leggerezza e di cambiamento – annotano i critici musicali Ernesto Assante e Gino Castaldo nel loro saggio sui «Fab Four» edito da Laterza –. Hanno innescato un processo di autocoscienza collettiva in una generazione che di colpo non aveva più barriere geografiche e si scopriva planetaria, mondializzata, animata dagli stessi sogni collettivi».

Tredici album, più di duecento canzoni, milioni di fan in tutti i continenti: un’avventura straordinaria che si concluse cinquant’anni fa, il 10 aprile 1970, quando Paul McCartney diede un annuncio choc: «Io non sono più con i Beatles». Uno scioglimento ufficiale non fu mai attestato, ma quel giorno si capì che i quattro di Yesterday e di Michelle, di Help o di Ticket to ride non sarebbero più tornati insieme. Il loro successo, comunque, non si è fermato: si stima che siano più di un miliardo le copie vendute, tra album e singoli, un record tuttora inarrivabile che continua a crescere nell’universo digitale. La musica dei Beatles ci accompagna con la stessa freschezza, come se fosse stata composta ieri.

Le origini

Non arrivavano da Londra o dai quartieri alti: la culla dei Beatles fu Liverpool, una città industriale e portuale che negli anni ’50 non compariva certo nei circuiti musicali più ambìti. John Lennon (classe 1940) aveva 15 anni quando a scuola creò la sua prima band, i Quarrymen: suonavano skiffle, una sorta di rock’n’roll con venature swing. Dicono che fu proprio nel cortile dell’oratorio che, nel 1957, Lennon incontrò McCartney, più giovane di lui di un paio d’anni, ma con un talento musicale già effervescente.

L’amicizia (e anche la rivalità) tra John e Paul sarebbe diventata il «motore», il marchio di fabbrica e il destino dei futuri Beatles, che presero poi forma con George Harrison, compagno di scuola di Paul al Liverpool Institute, e con il batterista Ringo Starr al posto di Pete Best. Si formarono nei club e le prime apparizioni al Cavern (dove «debuttarono» nel marzo 1961) già li fecero notare, li portarono alla ribalta. Poi vari concerti ad Amburgo, in Germania, furono per loro come un’iniziazione: impararono a suonare insieme, e a suonare per il pubblico.

Beatlesmania

Il 4 giugno 1962 la Emi li mise sotto contratto e il 5 ottobre uscì Love me do, il primo singolo che li rivelò, avviandoli ad attraversare un decennio epocale, gli anni di Kennedy e delle tensioni politiche e razziali in America, gli anni di una nuova coscienza giovanile, della psichedelia, di Lsd e «viaggi» sintetici, gli anni dei figli dei fiori, the summer of love del 1967, fino ad arrivare al 1969 della conquista della Luna e di Woodstock.

La Beatlesmania è divenuta fenomeno di costume, ma anche antropologico. «Travolti dal successo, i Beatles hanno vissuto anni scapestrati e disinibiti – hanno rilevato Giuseppe Fiorentino e Gaetano Vallini sul quotidiano vaticano –. Certo, non sono stati il migliore esempio per i giovani del tempo, ma neppure il peggiore. Tuttavia, ascoltando le loro canzoni tutto questo appare lontano e insignificante».

 

Il testo integrale dell’articolo è pubblicato nel numero di aprile del «Messaggero di sant’Antonio». Prova la versione digitale della rivista!

Data di aggiornamento: 06 Aprile 2020
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