Calvino, scrutatore di anime
Candidato per il Partito comunista italiano alle politiche del 1953, Italo Calvino, il giorno delle elezioni, fece tappa al Cottolengo di Torino. E il contatto con quella realtà e con gli ospiti che popolavano quella «città nella città» gli fece spalancare gli occhi su un mondo che viveva ai margini della società, e che si sarebbe probabilmente estinto senza le persone che se ne prendevano cura. Nel 1960, alle elezioni amministrative, ottenne di fare lo scrutatore proprio al Cottolengo. Il tempo di quella sua seconda esperienza sembrò dilatarsi. Osservò con la mente e con il cuore quel microcosmo. Si indignò per le intemperanze di alcuni responsabili; restò disarmato di fronte agli atti di generosità di altri verso persone che la vita aveva condannato all’infermità fisica e mentale. Arrivò a chiedersi che senso avesse vivere una «non vita».
Dopo un travaglio interiore durato dieci anni su «temi che tocco, quello della infelicità di natura, del dolore, la responsabilità della procreazione, che non avevo mai osato sfiorare prima», uscì per i tipi di Einaudi, nel 1963, il romanzo La giornata d’uno scrutatore che consolidava alcune granitiche certezze, ma ne metteva in discussione altre dell’autore de Il sentiero dei nidi di ragno, de Il barone rampante, di Marcovaldo, delle Cosmicomiche, de Le città invisibili, solo per citare alcuni dei suoi capolavori. Ne La giornata d’uno scrutatore Calvino si trasforma nel suo alter ego letterario, Amerigo Ormea, lo scrutatore protagonista del suo romanzo: Amerigo (come Vespucci) che in occasione delle elezioni del 1953 esplora quel mondo sconosciuto tra le pareti del Cottolengo, e Ormea, inteso come anagramma della parola Amore che è la vera motivazione dell’agire di chi spende se stesso per gli altri, ma è anche la cifra stilistica della pietas che Calvino non lesina di riservare agli elettori di quella sua bizzarra sezione, platealmente sollecitati a votare per la Democrazia cristiana che allora, contro l’area social-comunista, si contendeva, talvolta in modo aspro, il consenso e il primato culturale nella società italiana appena uscita da vent’anni di dittatura, e da una guerra civile fratricida.
«Calvino era un ateo convintissimo, ma non è mai stato anticlericale», fa notare Domenico Scarpa, consulente letterario del Centro internazionale di studi Primo Levi di Torino, e autore del saggio Calvino fa la conchiglia – La costruzione di uno scrittore (Hoepli). «Lui prende sul serio l’istituzione religiosa del Cottolengo, attiva a Torino e altrove. Quello che mette in luce sono gli effetti sociali e politici dell’agire all’interno di istituzioni come questa. Calvino-Amerigo guarda con ammirazione la suora che si prende cura dei malati, ma anche con grande disappunto un prete che fa con lo scrutatore il giro delle camerate del Cottolengo, tanto che il protagonista del libro lo dipinge come un manipolatore della volontà altrui. Calvino osserva e descrive, caso per caso, con un rispetto fondamentale per l’istituzione, per chi l’ha fondata, per come contribuisce alla vita di una comunità, per come viene in soccorso di persone svantaggiate che altrimenti nella società non troverebbero nessun altro che le aiuta. Mi sento di avvicinare Calvino a Primo Levi. Più che una sensibilità religiosa, entrambi hanno un fortissimo senso e rispetto del sacro, del mistero e dei riti legati al sacro. E non solo verso il cristianesimo e la religione cattolica, ma verso tutte le religioni e le filosofie che fanno un investimento antropologico su ciò che è umano, rispetto all’universo e a tutti gli esseri viventi, anche se Calvino, come Primo Levi, non vede l’uomo come signore dell’universo al centro del mondo cosmico e materiale».
Lo scrittore Guido Piovene, all’uscita del romanzo di Calvino, disse: «A che punto si è uomini, a che punto si cessa d’esserlo? Fino a dove si estende “la miseria della natura” non ancora diventata umana, dove si colloca la linea divisoria tra la natura e la storia, l’industria umane? Da quale punto si può dire: questa miseria adesso non è più nostra, non ha il diritto di contribuire a decidere? Oppure l’uomo è fatto dalla ricchezza di tutto ciò che esiste?». Calvino era un razionalista problematico. Riscontrava tutti i limiti di qualsiasi visione del mondo, compresa quella illuminista. «La ragione umana, il fare umano, le intenzioni umane cozzano contro la realtà», prosegue Scarpa. «I risultati dell’agire dell’uomo sono spesso diversi dagli scopi che egli si prefigge inizialmente. Il modo di scrivere e di agire di Calvino, quello di pensare il mondo risentono di questo continuo contrasto tra la ragione umana, tra il fare umano, e tutto ciò che di irrazionale, di incalcolabile e di misterioso esiste nella realtà e nel mondo».
L’esercizio della democrazia
La giornata d’uno scrutatore può essere letto in chiave contemporanea? Il professor Raffaele Caterina, ordinario di Diritto privato all’Università di Torino e curatore del volume dal titolo La città dell’imperfezione – La giornata d’uno scrutatore tra tradizione illuminista e complessità dell’umano (Rubbettino) sostiene che nel romanzo «c’è una tensione che si riscontra ancora oggi quando parliamo di esercizio della democrazia, tra concezioni elitarie di matrice illuminista che richiedono una partecipazione alla vita democratica estremamente informata e colta, e, d’altro canto, la constatazione che la democrazia è fatta anche di realtà non sempre rispondenti a quei criteri così esigenti». Claudio Milanini nel suo saggio L’utopia discontinua (Carocci editore) rileva che «In più luoghi de La giornata d’uno scrutatore, la voce narrante esce dal suo riserbo per sottolineare l’involuzione del movimento comunista internazionale, per lamentare il riprodursi dell’antica separazione fra governanti e governati; da un lato viene esaltato lo slancio delle democrazie nascenti, dall’altro viene denunciata la necrosi burocratica di cui soffrono partiti e Stati che pure di quello slancio si erano fatti interpreti».
Va detto inoltre che nel romanzo «ci sono i problemi della vita, del senso che ha vivere in certe situazioni in cui l’umanità si trova, e che Calvino evoca, sempre senza proporre soluzioni preconcette – aggiunge Caterina –. Il protagonista Amerigo Ormea s’interroga sui temi del controllo delle nascite, dell’aborto, della malattia, ecc... e sul senso che la vita nasconde anche in situazioni estreme. Questioni che sono ancora attuali». Calvino le affronta al di là delle ideologie. È evidente che ha una posizione ben precisa, ma riflette sulla natura di una comunità democratica e su quella della democrazia come istituzione. «Come la costruisci una comunità? Con quali procedure, con quali riti laici, compreso quel che di “sacro” questi riti sottintendono? Con quale modo di stare assieme?», si chiede Scarpa. «Sono questioni che ancora adesso ci riguardano». La democrazia, ieri come oggi, è sempre in balìa di persuasori più o meno occulti, di fake news e di influencer. Di fronte a queste minacce, che ruolo hanno il libero arbitrio e l’indipendenza di giudizio? «Hanno un ruolo nelle conseguenze delle nostre azioni – risponde Scarpa –. In qualche modo, il libero arbitrio riusciamo sempre a esercitarlo. Calvino ne è convinto. Sul punto non è mai né rinunciatario né fatalista. L’agire umano conta sempre, ed è sempre determinante. Quello che non sappiamo è cosa succede una volta che abbiamo agito in base a una decisione. Lì nascono un sacco di paradossi che Calvino, poi, nelle sue opere prova anche a raccontare tra il grottesco, il divertente e il disperato».
Raffaele Caterina ritiene che «la grandezza di Calvino è quella di riconoscere nella concretezza di quel particolare “corpo politico” che è il Cottolengo, ciò che c’è di buono; e lo scrittore lo sa valorizzare fuori da ogni programma, fuori da ogni controllo, e fuori da una visione che identifica la politica con lo Stato, e lo Stato come l’istituzione che considera astrattamente i cittadini tutti uguali. In fondo, la sua visione si allontana dalle visioni del mondo totalizzanti che vogliono tutto comprendere e tutto programmare. Come poi nel suo romanzo Le città invisibili affiora la percezione che se arriva qualcosa di buono, si manifesta in modo spontaneo. Le posizioni di Calvino, tuttavia, non sono mai consolatorie. Scorge sempre tutti i limiti e tutti i rischi di ogni azione. Il suo è pure il tentativo di narrare non solo quello che vede, ma anche di raccontarsi senza tralasciare le cose, senza enfatizzarne alcune; di raccontarsi anche nella propria vita interiore in modo obiettivo».
Agli interrogativi sul Cottolengo come metafora universale della «città degli emarginati e degli ultimi», Ormea alias Calvino sembra trovare una risposta unitaria quando afferma che: «L’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo», espressione che suona come un testamento morale dello stesso scrittore. «Questo è uno dei punti d’arrivo della sua riflessione», ammette Scarpa. «L’amore come spinta universale, come spinta per gli uomini che fanno o tentano di fare la storia c’era già ne Il sentiero dei nidi di ragno».
La lezione di Fenoglio
Nel 1961 Italo Calvino sollecitò Beppe Fenoglio a raccogliere i suoi racconti, a scriverne altri per pubblicare un libro intero. Il 24 settembre di quello stesso anno, insieme ad amici e colleghi, Calvino partecipò alla prima marcia della pace Perugia-Assisi, promossa da Aldo Capitini. Nel 1963 uscì La giornata d’uno scrutatore. Quello stesso anno morì Fenoglio. Sullo sfondo di questa intensa esperienza umana e letteraria c’è Torino. Sono ancora gli anni del boom economico, delle fabbriche in espansione, dell’emigrazione dal Meridione, delle lotte sindacali, della nuova geografia antropologica che va a ridisegnare le grandi città industriali del Nord. «In quegli anni Torino fu un laboratorio politico, sociale e culturale», ricorda Caterina. «In città c’erano anime molto diverse: la Fiat, il Partito comunista, un’importantissima tradizione cattolica che si confrontava con i temi della povertà e degli ultimi. E anche una tradizione diversa da quella comunista, più marcatamente illuminista: quella della Einaudi, di Norberto Bobbio. Calvino vedeva in Fenoglio un narratore molto più oggettivo e molto meno ideologico rispetto ad altri». Del resto, «Calvino fu il primo a riconoscere il talento di Fenoglio – conclude Scarpa –. Nel 1961, quando a Fenoglio restavano ormai pochi mesi di vita, Calvino cercò invano di riportarlo all’Einaudi. C’è poi un legame tra loro rispetto ai luoghi, non solo con Torino, ma piuttosto con il Piemonte e con la Resistenza, come l’aveva saputa pensare e scrivere Fenoglio, cioè come una grande, epocale e misteriosa esperienza con un forte respiro epico, tanto che Calvino amerà moltissimo il romanzo di Fenoglio Una questione privata, pubblicato postumo».
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