Sapori modenesi
Si dice che la penisola italiana abbia la forma di uno stivale. Ai buongustati invece l’Italia potrebbe sembrare una calza della befana ricca di ghiottonerie e prelibatezze. Una «calza golosa» appesa all’Europa tutto l’anno. Da Nord a Sud, oltre ai tesori storico-artistici e alle bellezze naturalistiche, il Bel Paese si distingue per un’antica e ricca tradizione gastronomica tra le più apprezzate al mondo, la cui spiccata eterogeneità, dovuta alle differenti tradizioni regionali, può accontentare anche i palati più esigenti e raffinati.
Questo viaggio gastronomico, tra le infinite espressività culinarie regionali, si orienta verso la Valle Padana che già Napoleone Bonaparte, nel suo Memorial de Sainte-Hélèn, definiva come «una delle più fertili, grandi e ricche piane del mondo». Abbracciata dalle Alpi e dagli Appennini, la Val Padana si estende per tutto il bacino idrografico del fiume Po da cui la piana stessa ha preso nome. Anche qui la varietà di prodotti e tradizioni gastronomiche mi costringe a una precisa scelta di campo: l’Emilia Romagna, nella ricca e feconda terra della provincia di Modena irrigata dai Fiumi Secchia e Panaro. Il modenese, annoverato tra le maggiori realtà economiche europee, dove trovano sede la capitale mondiale dell’automobilismo sportivo (Maranello) e le prestigiose industrie ceramiche e tessili, vanta operose fucine di molti dei fiori all’occhiello della cucina italiana. Qui si trovano i grandi salumifici italiani, Cremonini e Fini, i centri di produzione del parmigiano reggiano e della lavorazione del maiale, i vitigni che danno corpo al Lambrusco e all’aceto balsamico, i noci che si estendono a perdita d’occhio per profumare il Nocino, il tradizionale liquore modenese.
Ma la natura in questa storia di prestigiosi e gustosi prodotti gastronomici ha fatto solo la sua parte. La qualità dei prodotti che oggi gustiamo sulle tavole modenesi si deve a generazioni di gente genuina, cordiale e schietta, che da tempi ormai lontanissimi passa il testimone di una cultura contadina fatta di duro lavoro e di tradizioni profondamente radicate. Antiche ricette e originali metodi di lavorazione sono stati tramandati con amore e difesi con determinazione dai produttori modenesi, rappresentando un importante simbolo di civiltà e identità culturale. Tutto ciò ha consentito il mantenimento dei tradizionali processi di produzione, dove i tempi sono ancora dettati dai ritmi della natura. Questo è, infatti, il vero segreto dell’unicità del parmigiano reggiano, dell’aroma intenso del nocino, della corposità dell’aceto balsamico, la cui produzione sembra rimasta quasi immutata nel tempo. Questo spiega la squisitezza dei tortellini, che contengono la sapienza delle mani di generazioni di donne che hanno impastato e tirato la sfoglia, e la fragranza delle tigelle in cui si ritrova l’antico profumo del pane fatto in casa.
E allora l’esperienza di un pranzo modenese si carica di valori che vanno ben oltre il piacere sensoriale. Come primo assaggio, nel cestino di vimini al centro della tavola, ci sono le tipiche tonde tigelle, appena tolte dalla pietra rovente e bollenti pezzi di gnocco fritto a forma di losanga. L’impasto è simile, ma i diversi metodi di cottura rendono questi lontani cugini della focaccia due diversissimi companatici per gustare la varietà dei salumi modenesi adagiati su un grande tagliere. Si può farcire la tigella con la tipica cunza, un pesto modenese a base di lardo, aglio e rosmarino, oppure accompagnare un pezzo di gnocco fritto con un’ampia fetta di prosciutto crudo, il cui profumo ne anticipa il sapore intenso e deciso, più saporito di quello di Parma. L’oste stappa un Salamino di Santa Croce, uno dei tre lambruschi doc di Modena. Il bicchiere si riempie di rosso rubino carico e la spuma disegna nel bicchiere orli violacei. Il profumo è fresco, fruttato, il gusto armonico e leggermente acidulo. L’oste spiega che il lambrusco doc è uno e trino. Se la vitis labrusca, un vitigno selvatico integrato da secoli nel paesaggio modenese, ha dato alla famiglia dei lambruschi doc un carattere schietto e un’effervescenza gaia e leggera, le naturali caratteristiche dei vitigni impiegati, le rispettive composizioni del suolo, i microclimi e il lavoro dell’uomo hanno portato i tre lambruschi fratelli a maturare una propria distinta fisionomia.
Mentre sorseggio il Salamino di Santa Croce, che ben si abbina agli antipasti modenesi e ai tipici tortellini in brodo che la cuoca modenese, la cosiddetta rezdora, sta preparando, l’oste ricompare con tre grandi scaglie dorate di parmigiano reggiano macchiate di aceto balsamico. Specifica che il balsamico servito sul parmigiano è il tradizionale, ossia il più pregiato, il più prezioso, il più pigro e anche il più costoso. Dalle colline di Spilamberto, i grappoli dell’uva trebbiano vengono lavorati con metodi di antica tradizione fino a ottenere puro mosto d’uva cotto che viene fatto riposare per oltre venticinque anni in almeno cinque botti di legni diversi. Tutta un’altra storia rispetto al più comune aceto balsamico di Modena che, ottenuto industrialmente da mistura di aceto di vino e mosto cotto, non può certo vantare tale corposità e tanta ineffabile intensità dolce agra. La rugiada balsamica rinfresca ed esalta il gusto intenso delle scaglie di parmigiano reggiano che sto degustando nell’ordine che l’oste mi invita a seguire, secondo il colore dei bollini che marchiano a vista le tre stagionature: dall’aragosta dello stagionato oltre diciotto mesi, all’oro del parmigiano stravecchio stagionato oltre trenta mesi, all’argento che garantisce una stagionatura di oltre ventidue mesi, registro un gusto progressivamente più deciso, una consistenza più friabile e granulosa, una pasta più asciutta.
Mentre ascolto i racconti dell’oste sulla tradizionale lavorazione di questo formaggio senza stagione e senza rivali, cavallo di battaglia di primi e antipasti e gradito compagno di frutta fresca e secca, dalla cucina esce un piatto fumante di tortellini in brodo. Un primo sguardo basta per riconoscere la produzione artigianale che rende i tortellini tutti simili tra loro, ma nessuno uguale all’altro. La leggenda vuole che il tortellino abbia origine dall’ombelico della scultura della dea Venere: un’arte fatta con amore. Il sapore antico del bollente brodo di carne, che esalta il gusto del ripieno dei tortellini, rimanda al tempo dei giorni che precedono il Natale o qualche altro importante giorno di festa. Le rezdore si ritrovano in casa a preparare insieme i piccoli tortellini. Mani sapienti e addestrate trasformano uova e farina in un morbido e omogeneo impasto, tagliano la sfoglia appena tirata e la rimpinzano con il ricco ripieno. A mani d’artista spetta il tocco finale: dare forma all’ombelico che intrappola il ripieno nella pasta.
L’oste stappa ancora un’altra bottiglia. È Lambrusco di Sorbara, ideale compagno di zampone e cotechino. Il nuovo nettare non tradisce la sua famiglia, spumeggiando allegramente nel bicchiere. Ma il suo colore è più rosato e nell’aria si sprigiona un dolce profumo di violetta. Viene servito un altro fumante piatto su cui troneggiano due fette di carne rossa, pressoché identiche, tra un contorno di lenticchie e di purè. Non indovino quale sia lo zampone e quale il cotechino neanche al primo assaggio. L’oste è divertito perché sa che potrebbe ingannare chiunque, tranne un vero modenese. Il Sorbara esalta il sapore delle carni con la sua nota aromatica pronunciata. Il mio cicerone mi racconta delle origini storiche di questi due insaccati, un tempo presenti quotidianamente sulle tavole dei modenesi e oggi quasi riservati ai giorni di festa, di Natale e Capodanno.
Il pranzo è quasi consumato e i miei sensi sono stati ben appagati. Assaporo anche un sorso del terzo Lambrusco dell’aristocratica famiglia dei doc, il Grasparossa di Castelvetro nella sua versione amabile e assaggio infine gli amaretti dolci. Il contrasto domina quest’ultima esperienza culinaria: la croccante crosta sottile e il cuore morbidissimo, il dolce e l’amaro, connubio di indicibile intensità.
Dagli antipasti al dolce la cucina modenese non ha un attimo di esitazione: dalle fette di crudo adagiate sulla tigella, alla pancia cunzata delle tigelle, all’esaltazione balsamica del parmigiano a scaglie ritrovato dentro il gustoso ripieno dei tortellini, al picco di golosità di zampone e cotechino fino al dolceamaro sopraffino di un amaretto d’autore. E tutto questo accompagnato dalla briosa danza dei lambruschi che si sono alternati come onesti e allegri cavalieri di ogni portata, sempre all’altezza della situazione con schiettezza e sincerità. Gli ingredienti di questi piatti sono semplici ed elementari, ma sfruttati con sapienza e fantasia. Dall’allevamento dei suini provengono il crudo e lo strutto con cui si frigge il gnocco, il cotechino, lo zampone e il ripieno dei tortellini. Dall’allevamento bovino provengono il latte crudo da cui nascono le forme d’oro di reggiano con cui s’insaporiscono primi piatti e antipasti; dalla coltivazione dei vitigni si ricavano invece l’aceto balsamico e il rosso frizzante.
Semplici risorse di base, ma grande sapienza, radicate tradizioni e antichi mestieri tramandati con grande passione. Come quella che anima l’oste che mi ha guidato in questo percorso dei sensi, e che mi porge un ultimo bicchierino. L’inconfondibile profumo di noci mi fa accettare di buon grado questo tipico liquore dai grandi poteri digestivi. Sorseggio lentamente il mio nocino insieme all’oste che, da buon padrone di casa, mi tiene compagnia. Poi è tempo di andare. L’oste mi saluta con una forte stretta di mano che ha la genuinità delle sue pietanze e la schiettezza dei suoi vini. Esco dal locale e noto l’insegna su cui è disegnato un matterello in mezzo a un mucchio di tortellini. Non ho alcun dubbio ora che gli osti modenesi siano degli artisti e che le loro donne, le rezdore, anche se non tutte belle come Venere, siano delle dee.
Prova la versione digitale del «Messaggero di sant'Antonio»!