Il lavoro nel post-pandemia
Lo ripetono ormai ossessivamente: fabbriche, uffici , ospedali, centri commerciali non trovano manodopera. Se potessi, consiglierei ai politici un libro: Le grandi dimissioni, di Francesca Coin (Einaudi, Stile libero). Verrebbero a conoscenza di ciò che finora hanno ostinatamente ignorato: nel mondo occidentale e industrializzato è forte e dominante un sentimento di rifiuto del lavoro, un capovolgimento del suo valore, un disinteresse profondo per quel che è stato considerato fino a qualche anno fa fondamento della vita civile. I provvedimenti finora presi lo hanno soltanto accentuato.
II rifiuto del lavoro (che c’è sempre stato), infatti, è diventato in questi anni cultura e comportamento, si manifesta in dimissioni e abbandoni, si esprime in atteggiamenti e in messaggi. Un brutto lavoro inquina e distrugge la persona e la sua vita. Una esistenza migliore non può che partire, quindi, dal relativizzarne la presenza fino a rifiutarla. È quello che hanno pensato i lavoratori del commercio degli Usa, i più precari, che a milioni hanno lasciato il posto di lavoro. È quello che rimugina chi, in bicicletta, senza contributi e senza assicurazioni, consegna pizze sotto la pioggia. La politica dovrebbe prendere atto che non siamo di fronte a un collettivo attacco di pigrizia ma a un grande e collettivo grido, «Non ne vale più la pena», ben più profondo, dissacrante e demolitorio di qualunque ribellione.
Perché «non ne vale più la pena?». Intanto perché le norme – quelle dette e quelle taciute, quelle date per legge e quelle che vigono nei fatti – non sono solo dure, ma ingiuste e deprivanti; non solo mettono in discussione la persona e la dignità del rapporto con il lavoro, ma incidono pesantemente nella vita, intervengono negli affetti, nel rapporto con la natura, con la salute, con i sogni. Vale la pena distruggere la propria esistenza per uno stipendio basso e precario? Per un lavoro che non ti dà sicurezza? Non è un caso che le dimissioni dal lavoro siano diffuse proprio tra chi – in teoria – non se le potrebbe permettere. Non è un caso che abbiano avuto la loro espansione più ampia dopo la pandemia. Il virus globale ha dimostrato quanto sia poco considerata la salute e la vita di coloro (i lavoratori del commercio, ad esempio) che non hanno potuto evitare di andare a lavorare. Ma, soprattutto, ha messo gran parte di chi lavora di fronte alla concretezza della morte.
L’essere umano – è questa una delle tesi più interessanti contenute nel libro di Francesca Coin – accetta molto della vita, anche le cose più difficili, perché rimuove la morte. Quando questa si presenta in modo così concreto e ampio come è avvenuto durante la pandemia, il lavoro, gli affetti, i tempi assumono un senso di diverso, acquistano una nuova forza. La stessa dimensione spirituale nelle sue diverse accezioni acquista nuovo valore rispetto al denaro e ai consumi. È in grado la politica di fare i conti con questo cambiamento?
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